Il regista bosniaco Ado Hasanovic ricorda la sua infanzia tra massacri e distruzioni. “Capisco l’angoscia degli ucraini: non sai se la tua vita finirà oggi, se sarai vivo domani mattina, se la sera la tua casa ci sarà ancora”
Ado Hasanovic vive in Italia dal 2013. è un giovane e talentuoso regista bosniaco testimone della guerra che alla fine del Novecento ha sconvolto i Balcani. “Sono nato nel 1986 in un paese che non esiste più, la Yugoslavia. Ricordo con grande serenità gli anni della mia infanzia a Glogova, un vilaggio della Bosnia a pochi chilometri da Srebrenica. Ogni giorno mio padre ci portava scatole di biscotti e altre sorprese, faceva il tassista e riusciva sempre a tornare da noi con cose nuove.”
Il fatto
Nel 1991 tutto cambia. “In una giornata di settembre mio padre, senza dirci nulla, ci portò tutti a nasconderci nei boschi. C’era un’atmosfera molto strana nell’aria. In quei giorni, tra Kravice e Glogova, i militari serbi fecero un’imboscata ed uccisero due ragazzi bosniaci musulmani. Quello stesso giorno tutti i governanti della Bosnia si precipitarono a Bratunac città principale della zona a soli 3 km dal confine con la Serbia, per fare dichiarazioni rassicuranti e calmare la popolazione, ma mentivano. In quella stessa giornata da Bratunac tanti cittadini di origine serba iniziarono a scappare oltre confine, un chiaro segnale che le cose non stavano andando bene”.
La guerra
“Dopo pochi giorni ci arrivarono le voci dell’inizio del conflitto in Croazia, ma nessuno pensava che la guerra sarebbe arrivata anche da noi… invece arrivò. Mio padre e mio nonno decisero, però, che noi potevamo restare a casa. In fondo lui era un tassista e non avevamo parenti nell’esercito o in altre forze militari, insomma si fidarono dei politici e dei propri amici e vicini”.
La fiducia
“Nell’aprile 1992, qualche settimana dopo l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, l’esercito serbo iniziò a fare esecuzioni sommarie in piazza. C’è una data che segna per me il punto di non ritorno ed è il 9 maggio 1992, era un sabato. Quel giorno l’esercito serbo entrò nel villaggio, i nostri vicini serbi (che consideravamo anche amici) fecero una cosa che ancora oggi non riesco a capire: parteciparono al primo sterminio di massa avvenuto nella Bosnia orientale. Nella mia cara città natale di Glogova vennero uccise 64 persone”.
“Ci fermammo in silenzio davanti alla nostra casa
che stava bruciando,
non scorderò mai il rumore del tetto che prendeva fuoco”
I boschi
“Grazie al coraggio di mio padre e mio nonno riuscimmo a scappare nelle montagne. Ricordo ancora il rumore sordo di tutti quegli spari in lontananza. Quando a notte scendemmo in città ci fermammo in silenzio davanti alla nostra casa che stava bruciando, non scorderò mai il rumore del tetto che bruciava, sembravano degli spari… tutta la nostra vita bruciava, perché noi, al momento di scappare nelle montagne, non avevamo portato nulla, eravamo semplicemente usciti fuori di casa per sopravvivere”.
La fuga
“Siamo scappati perché durante la giornata l’esercito serbo passava nelle città e portava via gli uomini, o tutti coloro che erano in grado di tenere un’arma. Queste persone scomparivano alla fine della strada e non tornavano più. In questa fuga la mia famiglia si separò, da una parte noi ragazzi con i genitori dall’altra i miei nonni. Solo dopo qualche mese scoprimmo che erano ancora vivi nascosti nei boschi. Mio padre è tra coloro che percorsero la terribile “Marcia della morte” da Srebrenica a Tuzla. Erano 15.000 uomini in fuga dai serbi, ne sopravvissero meno della metà.
Tra l’aprile 1992 e quello del 1993 (arrivo dei caschi blu dell’Onu) per me è stato l’anno della foresta e della caccia al musulmano. Per me è difficile da raccontare quello che è successo in quell’anno, è stato come la caduta all’inferno del genere umano”.
I caschi blu
“Quando arrivarono le truppe ONU tutti erano sollevati anche se nessuno rientrò alle proprie case che rimasero sotto il controllo dei serbi. Fino a quando fu possibile, rimanemmo a Glogova, poi però la situazione peggiorò molto e mio padre ci caricò (io, i miei fratelli e mia madre) sull’ultimo convoglio ONU verso Tuzla, mentre lui e il nonno rimasero li. A me sembrava che non potessimo fuggire dalla guerra, infatti anche a Tuzla cadevano le granate ed ogni sera dalla finestra con i miei fratelli guardavo il bombardamento della città con i proiettili che illuminavano la notte”.
L’Italia
“Il mio legame con l’Italia è molto forte e sono molto orgoglioso di essermi diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Per me l’Italia è casa, vivo qui da 10 anni e mi sono circondato di persone a cui tengo molto, sia nelle amicizie che nei rapporti professionali in ambito cinematografico. Inizialmente non avevo in programma di venire in Italia, ma ho conosciuto degli italiani in visita in Bosnia che sono riusciti a crearmi una forte curiosità nei confronti di questo paese e della sua cultura, del suo cinema, del suo cibo… Grazie a questa curiosità, tutte quelle cose si sono trasformate in realtà e concretizzate nella mia permanenza. Oggi posso dire che questo paese mi fa vivere i miei sogni”.
Il cinema
“Ho preso la passione per il cinema da mio padre che durante la guerra si dilettava a fare il cameraman. Le prime cose, simili ad un film, che ho visto nella mia vita furono le sue cassette. Dopo la guerra, non so come, riuscì a regalarmi una telecamera. Prima dei miei studi alla Sarajevo Film Academy, nel 2007 ho realizzato il mio primo documentario “Io sono di Srebrenica” con il quale ho vinto il premio speciale al Festival di cortometraggio di Mostar nel 2008. Dal 2013 vivo a Roma dove mi sono specializzato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Oggi, dopo tutti questi studi, ho capito che il mio vero maestro è stato mio padre.
Il presente
“Non ho capito la gravità della mia storia e di quello che è successo fino a che non sono venuto a vivere in Italia nel 2013. Vedendo la normalità in cui vivete ho compreso la non normalità nella quale ho vissuto durante e dopo la guerra. Sto finendo il mio primo documentario che parla di mio padre, delle sue cassette e dei suoi diari e sarà realizzato grazie alla produzione Palomar, che ha trovato qualcosa di umano e artistico in questo mio soggetto.
Io sono fortunato perchè vivo a Roma, però quello che ho vissuto non riuscirò mai a staccarlo da me, ancora oggi ho gli incubi, sogno che la guerra sia iniziata di nuovo e sono gli stessi sentimenti di una persona che oggi vive in Ucraina.
Il pensiero di non sapere se la tua vita finirà oggi, se sarai vivo la mattina, se quando uscirai di casa tornerai è un’esperienza spaventosa e io spesso attraverso i miei sogni ripiombo nel mondo della guerra…e non posso uscire.
Mio padre un giorno, quando la guerra era finita, mi disse: tu Ado, come bosniaco, devi tendere la mano ai tuoi coetanei serbi, dovete diventare amici. Voi non avete fatto la guerra, voi non avete responsabilità, dovete costruire ponti. Il futuro siete voi”.
ado.hasanovich@gmail.com
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