Prima a Mariupol: dalla normalità alla guerra. Adesso nelle foreste casentinesi: da profughi. Quella di domani non la conoscono ma sono pronti
La mattina a scuola. Il pomeriggio diviso tra gli amici e la palestra. Un appartamento al settimo piano di un palazzo in centro. Il padre taxista e appassionato di fotografia. La madre agente immobiliare. Le vacanze d’estate. Ivan ha 12 anni ed ha già due vite: quella prima e quella dopo l’invasione russa dell’Ucraina. La sua città è Mariupol: qui ha vissuto con i suoi genitori, entrambi di 38 anni, fino a quando le bombe sono iniziate a cadere. Adesso è in Italia: la madre Olena è con lui, il padre Andrey è rimasto in Ucraina. Hanno lasciato non solo la loro città ma anche una vita. Adesso ne hanno un’altra in un agriturismo sulle montagne del Casentino che hanno raggiunto con il sostegno del consorzio di cooperative sociali Isola che non c’è.
“Il giorno prima della guerra tutti facevamo la nostra vita di sempre – ricorda Ivan. Poi i bombardamenti, la fuga e adesso qui. Seguo le lezioni on line da una scuola di Leopoli ma non riusciamo a fare più di 20, 30 minuti perché poi suonano le sirene e tutto s’interrompe. Mi manca papà. Gli amici, le mie cose. Non riesco più ad aver alcun contatto con Mariupol”.
Il palazzo dove abitava ha un grande buco proprio al settimo piano: un razzo ha sventrato la sua casa. Intorno ci sono solo macerie.
Olena guarda il figlio e racconta: “al rumore lontano delle prime bombe non ci siamo preoccupati molto”. Quella che viene chiamata la prima battaglia di Mariupol risale al 2014 con gli scontri tra l’esercito ucraino da una parte e i separatisti filo russi sostenuti dai militari di Putin dall’altra. Ma la preoccupazione sale presto, insieme all’avvicinarsi della guerra. I russi sparano i razzi che colpiscono i piani alti dei palazzi. “Noi eravamo al settimo – ricorda Olena. Così ci siamo trasferiti a casa di mia madre che aveva un appartamento al primo piano di un altro palazzo. Tutto è diventato rapidamente difficile e poi impossibile. Niente cibo, niente acqua, niente riscaldamento. E questo già a marzo. Quando si poteva, si usciva dal palazzo per cuocere quello che si riusciva a trovare”. Poi è diventato pericoloso anche questo: significava esporsi alle pallottole dei fucili. Dopo i razzi, sono piovute le bombe dagli aerei. Non c’è più nemmeno la possibilità di comunicare e di sapere cosa sta accadendo: la mancanza di energia elettrica isola la città. “Un giorno abbiamo trovato una vecchia radio con le pile ancora cariche. L’ascoltavamo per sapere se e come sarebbe stato possibile fuggire dalla città”.
Il 20 marzo la partenza. “La nostra auto era stata danneggiata ma andava ancora. Così ci siamo messi in viaggio. Abbiamo impiegato 4 giorni per arrivare a Leopoli”. Un lungo viaggio di 1.300 chilometri superando numerosi posti di blocco russi. “Ogni volta che ci fermavano non solo chiedevano documenti ma volevano vedere se mio marito aveva tatuaggi”. Volevano essere certi che non fosse del battaglione Azov.
“A Leopoli – racconta Olena – abbiamo visto un avviso che indicava un pullman che sarebbe partito verso l’Italia. La guerra ci stava raggiungendo e non ci abbiamo pensato molto: abbiamo comprato i biglietti: per me, per Ivan e per la mamma di mio marito. Noi siamo saliti in pullman verso Roma, Andrey è tornato indietro verso Mariupol”.
Nel viaggio, Olena si ricorda di una sua cliente italiana che abita ad Arezzo. Scendono alla stazione. Telefona e inizia il percorso dell’accoglienza. Complicato a causa della lingua. Appesantito dal Covid: Ivan e la nonna risultano negativi al tampone ma Olena è positiva e deve rimanere 10 giorni in isolamento in una struttura sanitaria.
La famiglia si ritrova in un agriturismo nel comune di Pratovecchio, sulle montagne del Casentino. “La mattina continuo a studiare – racconta Ivan. O sui libri o in collegamento con Leopoli. Poi scrivo musica al computer: lo facevo anche a casa ma qui non ho la tecnologia che servirebbe. Non riesco più a parlare con i miei amici”.
A 12 anni la sua vita è stravolta. Tiene in braccio un gattino ed ha un grande cane bianco ai piedi. E’ serio come un adulto. “Vogliamo tornare a casa – dice Olena. Spero solo che la guerra termini prima possibile ma non so come finirà. Devo anche pensare alla possibilità di restare a lungo in Italia e allora devo organizzarmi: trovare un lavoro per me, consentire a Ivan di continuare a studiare e di fare la sua musica. E poi c’è Andrey, mio marito. Riusciamo a sentirci raramente, quando è possibile: siamo stati anche 10 giorni senza poterci parlare”.
La guerra era inimmaginabile: “nessuno ci pensava. Tutti eravamo convinti che Mariupol sarebbe stata intoccabile”. Così non è stato. Dopo la fuga, la vita di adesso: quella dei profughi. Ma Olena è pronta ad una terza vita con suo figlio: o tornando a Mariupol per ricostruire sulle macerie o rimanendo in Italia lavorando e ripartendo da zero.
10 anni al lavoro per accogliere i profughi
Dall’Africa all’Ucraina, cambiano le persone, resta l’obiettivo: ogni essere umano riceva secondo i propri bisogni
Francesco Tinti è il coordinatore del progetto di accoglienza per richiedenti asilo della cooperativa L’Albero e La Rua del Consorzio Isola che non c’è. “La nostra attività è iniziata nel 2012, rispondendo alla chiamata della Prefettura di Arezzo. Siamo andati avanti nella convinzione che come cooperatori sociali fosse nostro dovere aiutare le persone in difficoltà. Allora era l’emergenza dal nord Africa, con la crisi libica e il disastro geo politico conseguente che provocò un enorme afflusso di profughi sulle coste italiane e la necessità di dare loro una risposta di civiltà”. Oggi c’è la guerra in Ucraina: “riteniamo ancora validi i motivi che ci convinsero allora a fare la nostra parte: partecipare alla costruzione di un “sistema mondo” in cui ogni essere umano possa ricevere secondo i propri bisogni e debba contribuire secondo le sue possibilità. Perciò è evidente che non c’è una scelta di accogliere in modo specifico i profughi ucraini, Il nostro sistema di accoglienza opera nella volontà di accogliere le vittime di qualsiasi guerra e della miseria che i conflitti ovunque provocano”.
Francesco ha conosciuto Olena e Ivan al loro arrivo ad Arezzo. “Incontrare queste persone, intrecciare le nostre storie, conoscersi, imparare a comprendersi è una esperienza ogni volta sorprendente e straordinaria. Pur con tutte le difficolta e le contraddizioni, la difficoltà del prendere in carico persone che hanno vissuto momenti terribili, a volte penso che è sempre molto di più quello che riceviamo di quello che riusciamo a dare”.
L’esperienza aiuta a superare le difficoltà: “siamo ormai abituati ad accogliere persone provenienti da molte parti del mondo e siamo strutturati per dare risposte ai bisogni specifici. C’è un grande lavoro di conoscenza e di pratiche alla base dell’accoglienza. Una varietà di competenze ed esperienza degli operatori. E anche una rete territoriale importante all’interno della quale ci supportiamo, scambiamo informazioni cercando di costruire contesti sempre più inclusivi. Le difficoltà nel caso dei profughi ucraini forse sono minori del solito e la loro vicenda favorisce il dialogo e un coinvolgimento emotivo molto forte anche con la popolazione locale. Non è una critica questa, anzi, ritengo che questo sia un fenomeno naturale e molto umano. Semmai dobbiamo far sì che lo sforzo che si sta facendo per accogliere gli ucraini, gli strumenti organizzativi messi in atto, il grande movimento di solidarietà che si muove, si allarghi a tutti coloro che fuggono dalle oltre 50 guerre che ci sono in questo momento nel mondo”.
Le impressioni personali: “penso che i momenti di crisi siano fondamentali per il cambiamento. Credo che la nostra società abbia la necessità di crescere soprattutto in consapevolezza sotto molti aspetti. Ci stiamo rendendo conto che il mondo sta davvero diventando molto piccolo, che quello che succede lontano da noi ha conseguenze dirette o indirette sulle nostre vite. Non è più il tempo dell’egoismo, non per una questione di etica (che pure andrebbe considerata), ma semplicemente perché non funziona. Questa crisi di cui ancora dobbiamo vedere la vera portata, può essere il motore per un cambiamento verso un mondo più giusto, più equilibrato, più attento ai bisogni dell’ambiente e ai diritti delle persone, questa crisi può “costringerci” a costruire la pace. Oppure può facilmente portarci alla catastrofe. Sta a noi scegliere, sta ad ognuno di noi.