Stragi naziste, la storia di un uomo che ha dedicato la sua vita a non dimenticare
“Alcuni uomini vedono le cose per quello che sono state e ne spiegano il perché. Io sogno cose che devono ancora venire e dico, perché no.” (Robert Kennedy)
E’ altissimo il tributo di vittime per le atroci follie nazifasciste della nostra Regione. La Toscana martire, con comunità simbolo come Stazzema, Civitella della Chiana, Cavriglia, Fucecchio, Barberino. Nella Toscana partigiana, democratica e antifascista, si avverte sempre forte l’indignazione al rigurgitare di comportamenti che rimandano agli anni della vergogna del Paese, come è accaduto poco tempo fa con le grida inneggianti “Presente” di Acca Larentia e il silenzio assordante della Presidente (ops! del Presidente) del Consiglio Giorgia Meloni. Un clima perfetto in cui può crogiolarsi la questione riprovevole che vorrebbe negare il risarcimento stabilito da alcune sentenze emesse nelle scorse settimane alle famiglie vittime delle stragi nazifasciste. Era il luglio 1944, quando anche a Niccioleta di Massa Marittima, con la ritirata nazista, le case dei contadini furono invase. Gli uomini separati da donne e bambini e 83 di loro brutalmente sterminati.
Evento ricordato come la strage dei minatori, visto che la maggior parte degli abitanti del villaggio lavoravano nelle miniere fossili. Le madri e i bambini furono trasferiti a Castelnuovo Val di Cecina.
Nel 2022, il Governo, guidato da Draghi, ha istituito un fondo di 61 milioni di euro per risarcimenti alle famiglie delle vittime.
È grazie a questa legge che lo scorso anno le sorelle Maria Pia e Giuliana Mannini, 84 e 82 anni, si sono viste riconoscere, dal tribunale di Firenze, 270 mila euro ciascuna per l’uccisione del padre, fucilato a Castelnuovo.
Ma anche nelle altre realtà degli eccidi del luglio ‘44 il ricorso è stato avviato. Anche l’altro Castelnuovo, quello dei Sabbioni, nel comune di Cavriglia, anch’esso paese di minatori sono più di cento oggi le famiglie che hanno ricorso e la storia di quella strage tra le più cruente (la quarta in Italia per numero di vittime). 192 i morti complessivi. Quando nelle prime ore del mattino del 4 luglio i tedeschi della Panzer division Hermann Göring rastrellarono oltre a Castelnuovo i borghi di Meleto, San Martino, Massa (una settimana dopo anche il quartiere de Le Matole), probabilmente anche perché considerati covi di anarchici, socialisti e comunisti e di partigiani, trovarono famiglie innocenti e inermi.
Emilio Polverini, oltre 90 anni, dedicati interamente a studiare, scrivere e raccogliere testimonianze, ricordi ed emozioni è tra i sopravvissuti che hanno accettato di ricorrere al tribunale
Nel rastrellamento ogni uomo fu catturato e portato nelle piazze e nelle aie, sparando a morte a chi tentava di fuggire. Furono attimi ed ogni strada o casa deserta, tutto drammaticamente spettrale. Le donne e i bambini rifugiati fuori dai paesi, dove potevano. Tra gli uomini catturati anche tre parroci: don Ferrante Bagiardi, don Giovanni Fondelli e don Ermete Morini.
Non erano ancora le dieci del mattino che le mitragliatrici tedesche avevano provocato l’orrenda inumana strage di innocenti. Emilio Polverini, oltre 90 anni, dedicati interamente a studiare, scrivere e raccogliere testimonianze, ricordi ed emozioni è tra i sopravvissuti che hanno accettato di ricorrere al tribunale.
Aveva undici anni Emilio nel 1944 e sua nonna, come mi ha raccontato più volte, il pomeriggio successivo volle portarlo nella grande piazza dove ancora giacevano i corpi degli uomini ammazzati dai tedeschi. Sapeva che sarebbe andato a vedere una piazza piena di morti, fra i quali sicuramente c’era suo babbo e mentre percorreva in silenzio, con la nonna la strada assolata e deserta, dentro di sè si agitava insieme dolore e paura, ma anche desiderio di vedere.
“Arrivati alla ripida Via Camonti, prima vidi una enorme macchia di sangue sotto un davanzale dove abitava un signore paraplegico che probabilmente si era affacciato alla finestra, poi un odore acre di lana e stracci arsi dal fuoco, ed infine, a cento metri dalla piazza, la vista delle case che ancora bruciavano e il rumore delle tegole che cadevano dai tetti. Mi fermai irrigidito, non volevo più vedere. Ma la nonna, nonostante l’età e lo strazio, aveva ancora un carattere energico: « Emilio, tu sei il fratello maggiore: tu devi vedere, perché tu devi ricordare!» Ero un ragazzo di undici anni e non potevo capire, ma la piazza, quei settanta morti in parte accatastati, altri sparsi qua e là, con gli occhi sbarrati, sfigurati, gonfi, neri i panni bruciati dal fuoco. Poi il nostro pianto disperato e liberatorio e le parole di conforto di due donne che erano lì per cercare di riconoscere i morti. Tutto mi è rimasto perennemente impresso nella mente e nel cuore.”
Impossibile dimenticare.
Per Emilio è stato un monito, una missione. Emilio ha dedicato ogni suo momento libero dal lavoro o dalla famiglia a tenere viva la memoria ed il desiderio di tramandare quel dolore e quel monito a non dimenticare alle nuove generazioni.
Ha recuperato ogni atto, ogni immagine ed ogni testimonianza che fossero utili a capire responsabilità e tragedia, dolore e memoria di quelle giornate tragiche che hanno segnato la vita sua e di quella comunità ferita.
L’ultima volta che ho incontrato Emilio era assieme a Filippo Boni il giovane storico e scrittore, oggi anche amministratore del comune di Cavriglia, che come avesse raccolto il suo testimone prosegue con il medesimo rigore e passione la pubblicazione di saggi e libri sugli eccidi e stragi nazifasciste, contribuendo a scardinare i vergognosi armadi conservati negli scantinati dell’oblio del nostro Stato.
Boni ricorda che Erodoto scrisse “nessuno è così pazzo da preferire la guerra alla pace. Nella pace i figli seppelliscono i padri, nella guerra tocca ai padri seppellire i figli”. E chi osa con grande efficacia che “nella nostra terra Toscana, nel luglio del 1944, non furono né i figli a seppellire i padri né i padri a seppellire i figli. Furono le madri che seppellirono padri, mariti e figli. Eppure questa gente, aveva scelto la pace”.