Laghi rosso ruggine e l’odore della morte

Le esperienze di due sanitari impegnati nelle emergenze internazionali

La medicina è la vita che si prende cura di se stessa, recita uno dei capisaldi del decalogo medico che da Ippocrate arriva fino a Gino Strada. Sara e Samuele, sanitari della Asl Toscana sud est, sono il simbolo di queste parole.
Sara Montemerani, 35 anni, dottoressa di medicina d’urgenza, fa parte del pronto soccorso dell’ospedale San Donato di Arezzo; Samuele Pacchi, 43 anni, è una delle colonne del team infermieristico del 118 di Arezzo. Sono due professionisti che fanno parte del nucleo regionale di sanitari di U.S.A.R. (Urban Serch And Rescue) che interviene nei luoghi del mondo dove la natura si ribella e si riprende il suo pianeta, cosa che avviene sempre più spesso anche in Italia. A febbraio salirono all’onore delle cronache nazionali per essere stati tra i primi ad intervenire per il terremoto in Turchia. Tra settembre e ottobre 2023, Sara a Derna in Libia e Samuele a Yerevan in Armenia, sono stati impegnati nuovamente in missioni internazionali. “Una delle domande che più spesso mi vengono fatte – racconta Sara – è perché decido di partire. In verità non penso ci sia una sola risposta. La mia formazione e il mio lavoro nel settore dell’emergenza mi fanno toccare con mano ogni giorno quanto sia indispensabile l’aiuto fisico e morale nel momento in cui tutto ti sembra perduto. In Pronto Soccorso tutti i giorni, 24 ore su 24, rispondiamo a tutti bisogni e le necessità di ogni paziente. Questa caratteristica ci rende sicuramente più consapevoli delle necessità nell’emergenza e ci dà la spinta per dire sempre “si”, nonostante a casa ci aspetti una famiglia o aldilà della stanchezza accumulata nell’attività di tutti i giorni.” “La mattina del 22 settembre sono partita per la Libia – prosegue Sara. Dovevamo fornire assistenza al personale tecnico operante sul territorio e ai civili colpiti dall’alluvione, in particolar modo nella città di Derna. La tempesta aveva portato piogge di straordinaria intensità e due dighe sono crollate causando un’onda di fango e acqua che si è abbattuta sulla città spazzando via gran parte del centro abitato e causando più di 10.000 morti, molti dei quali tutt’ora dispersi. Percorrendo la strada dall’aeroporto di fortuna, su cui siamo atterrati, fino alla città ricordo ancora i campi che progressivamente si trasformavano in laghi rosso ruggine e l’odore dei morti, impossibile da descrivere. Un’esalazione che ti riempiva le narici, una sorta di macrabo benvenuto allo spettacolo terribile che avremmo visto in città. In quel momento il nostro lavoro consisteva nel fornire assistenza al personale che stava facendo uno dei lavori più duri e dolorosi che si possano immaginare: recuperare e ricomporre le salme dei morti, spesso irriconoscibili dopo tanti giorni in acqua. Trasportavamo i corpi via in mare, fino al porto, in sacchi di plastica neri. Qui mani esperte sondavano delicatamente i segni identificativi e prelevavano tamponi di DNA per cercare di dare un nome a queste persone. Quello che ancora continua a stupirmi dopo settimane è la capacità che tutta la squadra ha messo nell’affrontare questo tipo di attività, ben lontana dal lavoro, pur sempre impegnativo, del Pronto Soccorso. La resilienza, discussa tanto durante la pandemia del Covid, era tornata nuovamente”.

Entrare in un territorio distrutto dal più devastante terremoto… 

Da Sara a Samuele.

“Cercare di migliorare il sistema “emergenza sanitaria” è sempre stato alla base del mio modus operandi – racconta Samuele Pacchi. Per inclinazione professionale mi sono sempre interessato alle interazioni con gli altri enti preposti al soccorso, alle maxiemergenze e alla medicina delle catastrofi. Quando squilla il telefono alle 6:50 di mattina e leggi sul display del cellulare che ti sta chiamando il Coordinamento Regionale Maxi emergenze vieni pervaso da un senso d’inquietudine e contemporaneamente da una scarica di adrenalina che alza il livello d’attenzione ad un punto mai avuto prima. Avevo sentito i racconti degli istruttori U.S.A.R. durante il corso, ma una cosa è un racconto, altro è affrontare la realtà. Entrare in un territorio distrutto dal più devastante terremoto dell’ultimo secolo ha avuto su di me un effetto surreale. La mia mente mi aveva creato schemi organizzati sull’ordinario e sul routinario, non era preparata alla distruzione totale. Ho imparato subito che in questi scenari non esiste il singolo soccorritore ma il team, con competenze diverse ma complementari, dove tutti operano con un unico obiettivo, facendolo in un contesto straordinario che può modificarsi in ogni secondo. Si pensa come squadra, se un componente ha un problema tutti hanno un problema. Nessuno viene lasciato indietro”.