Il fattorino del cibo a domicilio è il più anomalo tra tutti i profili professionali. Con un’eccezione: la cooperativa Robin food con paga dignitosa e un contratto da dipendente
Bruna Balsemao e Nadim Hammami, due storie parallele ma convergenti. La prima alla ricerca del paese che aveva dato le radici ai nomi dei suoi nonni e il secondo, in Italia perché il padre aveva lasciato la Siria negli anni ’60, per studiare architettura a Firenze, dove rimase creando la sua famiglia. Bruna, 31 anni, laureata in una piccola città del nord del Brasile, arriva in Italia e sceglie un qualificato corso di perfezionamento in una città tranquilla con la sua bella Università, a Camerino. È il 2016 e, appena lei arriva, la terra inizia a tremare, le case a crollare, e a seguire i morti, il dramma di Amatrice. Sospeso il corso, restituiti i soldi e ciao. “Spaventata, sola, aprii la carta dei terremoti e scelsi Firenze”. La città non offriva molto per lavorare e Deliveroo, con i suoi fattorini del cibo, fu la sua occasione. Aveva un referente in città, qualche suggerimento, Google map, una scassata bicicletta e via. 7 euro all’ora più un euro a consegna, orario fisso. Poi le condizioni via via sempre meno convenienti. Giorno dopo giorno, comunque, Bruna mette a frutto i suoi studi, la sua storia e sopravanza con il nuovo lavoro, quello con i turisti. In ogni caso continua anche oggi a lavorare come rider con Just Eat, tre giorni alla settimana, a tempo indeterminato e una nuova bellissima Bianchi. “Certo, 350 euro sono pochi, ma danno sicurezza a fine mese”. Ultimamente insegna anche a fare la pasta. “Ogni giorno che inforco la mia bicicletta è sempre come la prima volta. Siamo precari, sospesi e con un incrocio o un semaforo, magari rosso, in agguato”. La notte, poi, soprattutto per le riders donne, tutto diviene ancora più complicato e rischioso. “Ad esempio, non riesco più ad attraversare il sottopassaggio delle Cure, meglio fare il giro più lungo, in salita, in mezzo alle macchine. Per chi, come me, non ha la bicicletta elettrica è molto più faticoso, ma sicuramente è meglio che avere a che fare con gli agguati degli spacciatori che bivaccano nelle periferie, sotto i ponti e nei sottopassaggi”. Correre, correre, bruciare i tempi per rispettare le consegne. Questo uno degli inaccettabili assiomi del rider: la velocità. Si, perché il sistema, l’algoritmo, premia chi va più veloce, chi brucia le tappe. Premia chi riesce nel minor tempo possibile a fare più consegne e conseguentemente accettare nuove ordinazioni. Sta tutta qui la regola dell’impresa del cibo a domicilio. Una grande macchina perfetta di sfruttamento e precarietà del capitale umano. Il fattorino del cibo è forse il più disomogeneo e anomalo tra tutti i profili professionali: sia gli studenti universitari che molti laureati accettano di lavorare alcune ore alla settimana per integrare l’aiuto alla loro famiglia e permettersi magari qualche uscita alla sera in più o attendere il lavoro per cui hanno studiato. Poi ci sono gli espulsi dal mercato del lavoro, i cinquantenni “Clicca, accetta e pedala, corri. Nelle altre realtà il sistema premia chi sa stare al passo con la chiamata e la consegna” che non hanno o non trovano altre alternative occupazionali, ma anche coloro che magari lo fanno come secondo lavoro per integrare il primo stipendio sicuramente insufficiente per sostenere la famiglia. Certo, la maggioranza è composta dagli immigrati che per impiantare la loro “azienda individuale” non hanno bisogno di presentare curriculum. Non serve neppure che parlino bene l’italiano, devono solamente possedere un telefono, una bicicletta da 50 euro, il permesso di soggiorno assicurato e il gioco è fatto: la moltiplicazione dei precari e un salario da 600 euro al mese garantiti. Potremmo continuare con le casistiche o con le istigazioni che le varie società di food delivery, come Glovo, Deliveroo, Uber Eats, Just Eat, offrono: lavoro instabile, diritti da conquistare e guadagno scarso, ma talvolta prezioso e sicuro, allargando la platea di giovani e non solo alla rincorsa forsennata, sulle strade delle nostre città.
“Siamo una cooperativa umana, locale e sostenibile, che ha come valori primari la dignità del lavoratore, l’economia locale e il territorio”
Nadim, 34 anni, è nato e cresciuto a Firenze. A lui non serve un navigatore ma solamente gambe, ritmo e velocità. Negli anni ha vissuto tutti i veri passaggi dello sfruttamento, delle assenze nella sicurezza nelle varie piattaforme. Ha scioperato, protestato e così, dopo una laurea in gestione sostenibile del turismo presa in Germania, patria della mamma, nel 2020, in modo assolutamente originale, ha avviato un progetto economico, sociale e politico che potrà aprire nuovi spazi di lavoro, più tutelati e meglio retribuiti. Con altri compagni di lavoro ha costituito una cooperativa, la “Robin food”, con paga dignitosa e un contratto da dipendente.
“Noi siamo dei piccoli grandi Robin competitivi nel prezzo e con uno spiccato senso di appartenenza. Lavorare nella nostra cooperativa, essere soci e produttori ci accomuna e ci unisce”.
“Una cooperativa umana, locale e sostenibile, che ha come valori primari la dignità del lavoratore, l’economia locale e il territorio”, si può leggere sul loro sito. Sei soci lavoratori, Simone de Giulio il presidente. Dopo un annetto godono di una clientela fissa che li riconosce, si fida di loro e li cerca. Negli ultimi tempi sono riusciti anche a coinvolgere stagionalmente, per l’arrivo dell’inverno, altri quattro fattorini del cibo con assunzione a chiamata. Robin food. Certo, il pensiero corre subito al leggendario e generoso arciere della foresta di Sherwood che cercava di redistribuire equamente le risorse ma, nel loro logo, è presente anche il pettirosso Robin, appunto, l’uccellino piccolo, piccolo, ma tenace, forte, resistente al freddo e anche piuttosto spavaldo. “Noi siamo davvero dei piccoli grandi Robin, molto radicati nel territorio, più competitivi nel prezzo e anche con uno spiccato senso di appartenenza. Lavorare nella nostra cooperativa, essere soci e produttori ci accomuna e ci unisce”. Intanto nelle altre realtà di distribuzione del cibo, solamente Just Eat sembrerebbe aver avviato un processo di “normalizzazione”, anche se molto ancora c’è da lavorare sui diritti, sui compensi, sulla sicurezza.
“Clicca, accetta e pedala, corri. Nelle altre realtà il sistema premia chi sa stare al passo con la chiamata e la consegna”
In ogni città sono ormai centinaia, qualche donna ma soprattutto uomini, con la bicicletta, a volte elettrica, oppure con il motorino, pronti a soddisfare la richiesta di chi non vuole o non può muoversi e preferisce ricevere il pasto alla porta di casa. Sempre attivi, pronti all’ingresso del ristorante o della pizzeria con i loro mezzi e i voluminosi e colorati zaini cubici. Magari infrangendo le regole del divieto di sosta e di parcheggio volute dal Comune, ci ricorda Bruna, che per un certo periodo si era anche impegnata nel sindacato. “Sarà l’età di molti di noi – rammenta Yiftalem Parigi, cofondatore di RidersXiDiritti – ma in molti pensano di non cedere mai, di essere inaffondabili, con energie infinite, magari i più bravi di tutti. “Vai, clicca, accetta e pedala, corri. Rispetta i tempi, prendi una nuova chiamata e sei premiato. Vai! E il sistema ti premia se sai stare al passo con la chiamata e la consegna”. Più sei veloce, più sei bravo. Anche questo è l’algoritmo drammatico della vita tra i riders. Forse anche quello che ha incontrato Sebastian Galassi, l’ultimo di una inaccettabile serie di drammatici incidenti stradali. “Nuovo ordine. Accetta”. Il terromoto dei riders continua. “E noi, come stronzi, rimanemmo a guardare”, come titola il film di Pif. Robin invece no, non resta a guardare. Prova a tracciare un’altra strada. Più equa e più rispettosa dei diritti delle persone. Un’altra direzione.