La scia della farfalla

Un incidente sul trampolino elastico ha trasformato Giulia Ghiretti da nazionale di ginnastica in nuotatrice paralimpica che ha fatto il pieno di record e medaglie, affrontando la disabilità come una condizione di vita e non d’inferiorità

Record del mondo 50 farfalla S5 in vasca corta, 42 titoli italiani, 4 record italiani in vasca lunga, 2 record italiani in vasca corta, medaglia d’argento nei 100m rana SB4 alle Paralimpiadi di Tokyo e non aggiungiamo altro per motivi di spazio. Questa è la carriera sportiva di Giulia Ghiretti, una ragazza di Parma che oggi affronta la specialistica al Politecnico di Milano, dopo la triennale in Ingegneria biomedica, e il concorso per entrare in Polizia, ora che hanno equiparato atleti paralimpici e normodotati all’interno delle forze dell’ordine. Il 4 gennaio 2010 è la data che ha cambiato la sua vita, o almeno agli altri può sembrare così: trasformando una liceale scientifica che praticava trampolino elastico – attrezzo sul quale ha avuto l’incidente che le ha tolto l’uso delle gambe – in una liceale scientifica che è diventata nuotatrice paralimpica, in azzurro prima e in azzurro adesso. Una condizione che ci siamo fatti raccontare in prima persona e che alla fine ci ha lasciato questo insegnamento: “Se la sofferenza vi ha resi cattivi, l’avete sprecata”, Ida Bauer.

Chi era Giulia Ghiretti prima dell’incidente?

“La stessa di adesso, più piccola di età, ma non è cambiato niente. Chi mi conosce da sempre mi dice: ‘Sei sempre tu’”.

Com’è accaduto?

«Durante un allenamento di trampolino elastico. Era il 4 gennaio del 2010 ed era il mio primo allenamento dopo le vacanze di Natale. Durante il salto mi sono ‘persa’ e quando sono ricaduta ero come nella posizione del plank, mi sono accorta subito che qualcosa non andava perché non sentivo più le gambe. Ho preso fiato per chiedere aiuto, il mio allenatore mi ha immobilizzata… ogni vibrazione del trampolino mi faceva soffrire. Poi, senza mai perdere conoscenza, sono stata trasportata all’ospedale in ambulanza, accompagnata da mio padre, Gian Paolo, e mio fratello, Pietro, che, come sempre, erano venuti a prendermi. Alle undici di sera ero in sala operatoria».

Qual è stata la tua prima reazione? E quella della tua famiglia?

“In realtà non te lo so dire, ma mia madre, Roberta, mi ha detto che appena mi sono svegliata dall’anestesia ho chiesto se potevo saltare ancora e di non perdere l’anno scolastico. Lei mi ha risposto che non lo avrei perso ma che di saltare e camminare non se ne parlava. Mi ha aiutata la curiosità, sapere cosa stavo facendo e perché. Volevo le foto della cicatrice e nei sei mesi che ho passato in ospedale per la riabilitazione mi ha mandato avanti la voglia di imparare cose nuove, un esercizio via l’altro; esercizi che mi hanno aiutata a recuperare per quello che è stato possibile”.

Qual è la prima cosa cui hai pensato?

“Di fatto non c’è mai stato, nella mia mente, un prima e un dopo. Ovviamente la prima volta a casa era tutto scomodo, perché in ospedale, per esempio, non c’erano le sedie visto che ognuno di noi aveva già la sua. Per la scuola mi ha aiutata tanto il fatto che mia madre fosse un’insegnante, sapeva come muoversi e ho fatto la DAD quando ancora non si sapeva cosa fosse, grazie a Skype: è stata fondamentale visto che sono uscita dall’ospedale a giugno, alla fine dell’anno scolastico, senza perdere niente. Certo, sulla famiglia tutto questo ha pesato perché mia madre è stata sempre con me quando mio fratello aveva dieci anni e mia sorella, Anna, quattordici: a lui è mancata la mamma e lei si è dovuta reinventare per gestire casa. Tutto questo affiancati da amici che, dalla teglia di lasagne ad accompagnare i miei fratelli a scuola, ci hanno aiutati”.

“Mi mancavano l’allenamento, l’adrenalina, la gara, mi mancava la quotidianità di tutto questo e così ho deciso di riprendere con lo sport. Era una questione di mentalità”

Al di là delle cure, da dove hai deciso di ripartire?

“Non so descriverlo a parole. Dovevo imparare a stare a casa, a tornare a scuola, a fare sport, prima mi allenavo tutti i giorni della settimana, avevo già fatto un Europeo con la Nazionale. Mi mancavano l’allenamento, l’adrenalina, la gara, mi mancava la quotidianità di tutto questo e così ho deciso di riprendere con lo sport. Era una questione di mentalità”.

Qual è stata la cosa più difficile da fare, nella riabilitazione, e quella più difficile da pensare?

“Per me era tutto nuovo, tutto da imparare, forse con l’incoscienza della mia età. Credo che le fatiche di quei momenti se le ricordino meglio i miei genitori”. In un percorso del genere ci sono cose facili o è tutto in salita? “Perché la vita è facile?”.

Come hai ripensato la tua esistenza civile e sportiva?

“Un passo alla volta. Per obiettivi. Prima volevo fare sport, poi le gare, poi migliorarmi e alla fine eccomi qui. La difficoltà è stata trovare una piscina per nuotare e una società per fare le gare, tanto che alla fine la società l’abbiamo creata noi, con allenatore, preparatore atletico, fisioterapista e nutrizionista, che oggi sono il mio staff. E devo dire che mi piace molto questa cosa, cioè essermi costruita da sola tutto quanto”.

“La cosa che mi dà più fastidio è quando mi guardano come dire “poverina”. Io sto bene con me stessa, quindi mi sa che sono gli altri ad avere un problema.

Quali tabù, bias cognitivi e pregiudizi hai dovuto affrontare?

“La cosa che mi dà più fastidio è quando mi guardano come dire “poverina”. Io sto bene con me stessa, quindi mi sa che sono gli altri ad avere un problema. Poi mi faccio aiutare, se sono sola e ho bisogno chiedo: una volta c’era da prendere un ascensore che era rotto e io ho chiesto aiuto, mentre un ragazzo come me se ne andato. La verità è che il mondo dovrebbe essere comodo per tutti, a partire dai bagni pubblici. E pensare che sono timida, faccio fatica a parlare di me, ma se questo può far conoscere e può aiutare chi è nelle mie stesse condizioni allora ha un senso. Se fosse stato solo per far vedere quanto sono brava nel nuoto no; le mie compagne di università hanno scoperto solamente dopo tre anni che sono un’atleta. Perché? Perché volevo che prima conoscessero Giulia”.

Quali ti hanno ferita e quali ti hanno lasciata indifferente?

“Io sono una che si arrabbia molto ma poi cancella. Sicuramente il momento peggiore è avere perso le amicizie scolastiche mentre frequentavo ancora il liceo, ma oggi non ci penso più, anche se ogni tanto in famiglia il discorso viene fuori”.

Tu ti consideri una persona con disabilità?

“Sì, perché fisicamente c’è e non la nascondo. Però spesso ce ne dimentichiamo, come quando prenotiamo un ristorante o il cinema e invece è importante comunicarlo. Io, comunque, mi sento una persona”.

“Nell’ acqua sto bene perché sono solamente io e il mio corpo senza la sedia”.

Perché poi hai scelto il nuoto?

“Il nuoto è stato parte della riabilitazione, però finché non toglievo il busto non potevo andare in piscina e io non vedevo l’ora. Nell’acqua stavo bene, sto bene perché sono solamente io e il mio corpo, senza la sedia”.

Record del mondo in vasca corta e decine di medaglie, sei una delle atlete più forti della categoria: che sensazione ti dà?

“Mi piace, mi diverto, il resto è venuto dopo (dice sorridendo con gli occhi, ndr)”.

Cos’è per te la competizione?

“È il frutto del lavoro che hai fatto insieme con tutto lo staff. Quando sei in acqua e gareggi non sei sola, ma fai la sintesi di ciò che hai elaborato con gli altri, di come ti sei allenata e preparata”.

Quali sono le possibilità e il sostentamento economico di un’atleta paralimpica?

“(Ride, ndr) Se sei nei primi quattro atleti del mondo prendi una mensilità dal Comitato Italiano Paralimpico, e lo stesso vale per la società. Le medaglie ‘pagate’ sono solo quelle olimpiche e per il resto servono gli sponsor. Per fortuna hanno equiparato gli atleti paralimpici a quelli
normodotati per accedere, tramite concorso, ai corpi di polizia, concorso che sto affrontando adesso. Io ero già nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro dal 2016, ma questo è un upgrade fondamentale”.

Secondo te lo sport paralimpico è raccontato nel giusto modo e nella giusta quantità?

“Si può fare di più e meglio, ma Tokyo 2020 (2021), considerando che il pubblico non poteva assistere, è stata raccontata bene”.

Raccontarti è un peso, una responsabilità oppure un’opportunità?

“È un mix. Non lo faccio per farmi vedere ma se posso essere di aiuto, esempio, risparmiare fatiche agli altri, ma soprattutto far conoscere quello che non si sa, allora mi fa piacere e la vedo come un’opportunità”.

Cosa ti senti di dire ai ragazzi e alle ragazze che si ritrovano nelle stesse condizioni nelle quali ti sei ritrovata tu?

“Di vivere giorno per giorno, darsi degli obiettivi e non precludersi niente, perché non è vero che non ci si può arrivare. Possiamo arrivare dappertutto”.

Rita Levi Montalcini una volta ha detto: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”. Quanto è reale per te questa affermazione?

“Mi ci riconosco completamente. E non è solo una questione di disabilità. La testa è fondamentale sempre, soprattutto in gara, molto più del corpo”.

Quanto corpo e quanta mente ci vogliono per superare, per accettare e per sfruttare a proprio vantaggio una condizione di disabilità?

“Quaranta e sessanta”.

Sei riuscita a fare pace con quello che ti è accaduto o è ancora un fuoco che brucia dentro?

“Non ci ho mai fatto la guerra. Ho avuto e ho sempre dentro il fuoco della vita”.

Chi è oggi Giulia Ghiretti?

“Questa (e lo dice sorridendo e allargando le braccia, ndr)”.