La fine del mondo figlio della seconda rivoluzione industriale
Tre fatti per iniziare.
1 – Ricordo nitidamente che quando ero piccolo, per la festività dei Santi, andavo a far visita al cimitero del mio paese, fiero del nuovo piumino invernale. Era una data che separava l’autunno dall’inverno e nebbia e brina sarebbero state due compagne di strada nei mesi successivi. Quaranta anni dopo, nel weekend di Ognissanti, hanno fatto notizia le numerose presenze turistiche negli stabilimenti balneari della costa toscana, che hanno straordinariamente prolungato la loro apertura.
2 – Gli investimenti ad impatto sociale nel mondo, ovvero quelli legati a obiettivi sociali o ambientali, misurabili ed intenzionali e che puntano a generare un rendimento, hanno raggiunto nel 2022 una dimensione di 1,164 trilioni di dollari, con il coinvolgimento di oltre 3.000 organizzazioni.
3 – La Cina ha recentemente diramato linee guida sull’ambiente per le imprese, con oltre 100 parametri di sostenibilità da rispettare. Quindi anche il gigante asiatico (responsabile, da solo, del 30% delle immissioni di gas serra nell’atmosfera) fa un primo passo per allinearsi agli standard da tempo già previsti da Europa e Stati Uniti, ammettendo che la crescita economica non può più fare a meno, neppure in Cina, del pilastro della salvaguardia ambientale.
La sfida della sostenibilità si sta quindi imponendo con forza come il tema dei temi a livello mondiale. Non a caso, le ricerche su Google sono triplicate negli ultimi dodici mesi. L’ONU, già nel 2015, ha lanciato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, sottoscritta da 193 Paesi e che si pone come guida di un programma globale in materia, con 17 obiettivi comuni in materia di lotta alla povertà, eliminazione della fame, contrasto al cambiamento climatico, solo per citarne alcuni. La sostituzione di carbone fossile, petrolio e metano con energie rinnovabili (sole, vento ed in prospettiva nucleare) richiede tuttavia tempi lunghi che forse, avvisano gli scienziati, non abbiamo più a disposizione. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha di recente pubblicato un piccolo saggio emblematico fin dal titolo: “E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica”. Come ha scritto invece l’economista gesuita Gael Giraud, le crisi ecologiche non prefigurano la fine del mondo, ma “la fine di un mondo”. Quel mondo figlio della seconda rivoluzione industriale, che ha finito per costruire un sistema basato su una crescita che va oltre la disponibilità di risorse della Terra, peraltro sempre più trattata come una discarica.
Focalizzarsi tuttavia sulle sole questioni climatiche ed ambientali può risultare una facile scorciatoia. La sigla inglese ESG, creata nel lontano 2005, pone infatti altre due lettere accanto alla E di ambiente; e non sono meno importanti. Non abbiamo di fronte, infatti, solo la sfida della sostenibilità ambientale, ma anche quella Sociale e di Gestione di imprese ed istituzioni. E saranno probabilmente queste ultime, secondo un approccio olistico che pare inevitabile, a decretare il successo, o meno, della rivoluzione sostenibile. Perché come ogni cambiamento epocale ci ha insegnato, l’impatto della Rivoluzione Green sarà tanto più efficace se si sarà capaci di imparare dagli errori del passato. Servono quindi competenze e visione, capacità gestionali e leadership (a tutti i livelli) in grado di evitare un nuovo disastro sociale. E non possiamo permetterci neppure imbiancature di facciata, come ad esempio i tanti, recenti episodi di green-washing.
Abbiamo sempre più chiaro che la transizione verso una società green non può essere fermata, ma non sarà una passeggiata. Si dovranno gestire impatti catastrofici ed emergenze non solo derivanti dagli effetti climatici: si pensi, ad esempio, solo per il nostro paese, che l’abbandono del motore diesel e la riconversione dell’industria automobilistica potrebbe comportare 70.000 esuberi tra i lavoratori del settore. Insomma, la risoluzione dei problemi ambientali è inseparabile dai contesti umani, familiari, lavorativi, urbani e dagli effetti su
stili di vita ed abitudini dei consumatori. Già, i consumatori. Specie nelle giovani generazioni, appare sempre più evidente la ricerca di prodotti e brand capaci di mettere sostenibilità ed economia circolare al centro della propria azione. Non a caso la moda è il settore che più sta investendo nelle buone pratiche esg. Forse memore del caso delle “pellicce” degli anni ‘80 e di cosa possono fare i consumatori. La notevole complessità della sfida che il mondo si trova davanti chiama quindi a raccolta tutti ed a tutti i livelli: cittadini, imprese, terzo settore ed istituzioni, facendo tesoro di quel gioco di squadra messo in campo durante l’ultima pandemia e che almeno un messaggio positivo lo ha lasciato: nessuno si salva da solo, ne possiamo uscire solo insieme. La coesione e la resilienza a farne da guida. La cooperazione si impone quindi come fattore critico di successo. Con nuovi spazi e possibilità che si aprono per chi ha fatto dell’etica di impresa, da sempre, il fulcro del proprio agire. Pensiamo in particolare a tutto il mondo della cooperazione sociale, che si trova davanti ad uno scenario favorevole come non mai per affermare che i valori della solidarietà, del benessere di soci, lavoratori e comunità e del rispetto delle diseguaglianze sono validi per tutti, anche per l’impresa profit. Con spazi di crescita davvero interessanti nel nuovo umanesimo industriale, se anche il mondo della cooperazione di credito e della finanza sostenibile offrirà il proprio sostegno nella creazione di valore oltre il semplice profitto.
Davanti ad una sfida così difficile e che toglie il fiato possiamo fermarci, bloccati dalla paura, o fare il primo passo e vedere cosa accade. Per quanto possa apparire presuntuoso, anche il solo parlarne, di ESG, può rappresentare quel primo passo. Raccontare e dialogare per dare un
senso alla sfida del bene comune che ci attende.