Il diritto alla salute rimane fuori dalle sbarre

I suicidi tra i detenuti e le guardie carcerarie: i numeri del 2024

“Purtroppo, Avvocato, quando ho commesso il reato stavo male, ma stavo male già da prima”.
Ora ha due figli, un lavoro e una casa di proprietà. Questa è la frase che mi sono sentita rivolgere, che rileva una triste verità, ma la sua è una storia fortunata, una rarità: quando il periodo di detenzione in carcere diventa l’occasione per venire a conoscenza di una patologia e prendersene cura. Una rarità perché la questione della salute mentale in carcere, soprattutto a causa dei mezzi e delle scarse risorse economiche a questa devolute, è una delle questioni più complesse e problematiche della realtà carceraria. Un problema, però, democratico perché colpisce i buoni e i cattivi, le guardie e i ladri. Si pensi, infatti, che dall’inizio dell’anno si sono suicidati sette agenti della Guardia Penitenziaria. Un numero che si va a sommare alle settantadue persone in stato detentivo che si sono tolte la vita dall’inizio del 2024.

Il carcere, inoltre, è terreno fertile per l’insorgere di patologie psicologiche e psichiatriche anche durante la fase detentiva e in quella prossima alla scarcerazione. Esiste la terapia, ma quella che all’apparenza sembra la soluzione diventa causa di un altro problema: l’abuso di psicofarmaci e lo spaccio degli stessi. Una terapia che è prettamente farmacologica per il numero basso di psicoterapeuti e perché decisamente meno dispendiosa in termini economici e di energie. Quello che succede, però, all’interno delle carceri non è altro che il frutto di quello che succede all’esterno, ma con la differenza che il carcere diventa un luogo in cui il dolore non solo esiste, ma viene riconosciuto, per quanto sedato. “Stavo male già da prima”.

La responsabilità e la soluzione in certi casi (cioè, in relazione a patologie non provocate dalla detenzione stessa) risiedono tutto in quel prima. Nel rendersene conto precedente o cogliere la commissione del reato come sintomatico di un malessere. Un approccio, però, che incontra limiti, fra cui in primis quelli in tema di imputabilità stabiliti nel Codice penale. Un Codice introdotto nel 1930 nel periodo della dittatura fascista, da un uomo e gli uomini non piangono. Un Codice che esclude la rilevanza degli stati emotivi e passionali ai fini dell’imputabilità. Di conseguenza, questa può essere esclusa quando si riscontrino deficit a livello cognitivo.
Soltanto nel 2005, con la c.d. sentenza Raso, si è dato valore ai disturbi della personalità escludendo l’imputabilità quando il reato sia sintomatico del disturbo. Un’apertura non sufficiente, considerando che i disturbi della personalità presentano natura transitoria e possono quindi essere non presenti al momento della commissione del fatto come richiede il Codice. Spesso, i disturbi coesistono con altri, specialmente quelli di abuso di sostanza stupefacenti, le quali non vengono mai completamente risolte qualora manchi la c.d. doppia diagnosi e si attui un trattamento che miri alla cura di entrambe le patologie.

“Quello che succede all’interno delle carceri non è altro che il frutto di quello che succede all’esterno”

Ulteriore limite è la società stessa, che non riconosce il diritto al dolore, ma ne è piena.
Nessuno nasce cattivo, ma lo diventa. Non tutti lo diventano, ma esistono fattori di rischio, anche di natura biologica, oltre che sociale. Il disturbo antisociale, ad esempio, spesso è anticipato nell’età evolutiva da un disturbo di condotta che ne costituisce un fattore di rischio. Oppure, vi è una connessione – per una questione legata alla dopamina – fra il disturbo da ADHD e l’uso di sostanze eccitanti, che spesso vengono usate da chi soffre del disturbo da ADHD per lenire inconsapevolmente gli effetti di questo.
Ciò non significa che chi che presenta disturbi di condotta necessariamente svilupperà un disturbo antisociale o di abuso di sostanza, ma che possa costituire, qualora i fattori di resilienza (quali un sano contesto sociale o familiare) siano carenti, un fattore predittore.
Ugualmente, risulta fondamentale considerare che i traumi si ereditano – anche intragenerazionali – come i comportamenti disfunzionali. Colui che maltratta o abusa, spesso è stato maltrattato o abusato. Anche in questo caso, il collegamento non è immediatamente conseguenziale, ma lo rende altamente probabile e frequente. Ne consegue che per risolvere alla radice la questione della salute mentale nelle carceri è fondamentale costruire una cultura del dolore, riconoscere il diritto ad esso; concepire la natura umana come complessa e agire in termini preventivi soprattutto nell’età dello sviluppo quando si presentano campanelli di allarme.

Citando Brecht: “Povero mondo che non ha eroi; “No, povero mondo che ha bisogno di eroi”.
Ma se l’eroe, per i Greci, è colui che riconosce le proprie fragilità (Ulisse piange per tornare ad Itaca, Achille quando muore Patroclo) sarebbe corretto rispondere: “Il mondo ha bisogno di eroi, ne è pieno e sono tutti fragilmente umani. Il carcere ne è la rappresentazione”.