Paolo Pezzati, portavoce Oxfam per le emergenze umanitarie, racconta una giornata di ordinaria disperazione nella Striscia
In Oxfam Italia dal 2003, Paolo Pezzati si è occupato di crisi umanitarie, seguendo in particolare il Medio Oriente, gli effetti delle politiche europee di esternalizzazione delle frontiere in Nord Africa e Sahel. Dopo essere stato responsabile delle politiche umanitarie sulla crisi in Ucraina per Oxfam International, oggi è portavoce per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia. Con lui proviamo a raccontare come si tenta di sopravvivere a Gaza. “La vita di un palestinese che vive a Gaza è diversa a seconda di dove ti trovi. Se sei nel centro di Gaza o sei a Gaza nord, quello che è rimasto in piedi e non è stato raso al suolo, stai vivendo isolato dal mondo, isolato anche da Gaza stessa, da Rafah. Molto probabilmente stai vivendo nei centri comuni, stai soffrendo la carestia perché in questo momento 400.000 persone sono al più alto livello d’insicurezza alimentare (carestia) e quasi tutte sono concentrate in quelle due parti della Striscia. Molto probabilmente l’acqua che riesci a bere è l’acqua del mare, vivi con un tasso di igiene scarsissimo a rischio di epidemie. I bisogni fisiologici vengono fatti all’aperto o in luoghi con frequenze altissime. Quindi c’è un grandissimo problema di igiene personale e di diffusione di malattie gastrointestinali e in generale di epidemie anche più gravi. Se invece ti trovi a Rafah sei comunque in un posto sovraffollato qui, in un’area che è un terzo dell’intera Striscia, sono ammassate circa 1,9 milioni di persone: gia Gaza era uno dei posti più densamente popolato prima del conflitto. Adesso è inimmaginabile la concentrazione umana. La mattina ti alzi, se sei un adulto, molto presto sperando di poter avere una tua razione di pane e di acqua per condividere con la tua famiglia. Se sei un bambino dormi, la fame aiuta ed aspetti che qualcuno ti porti qualcosa. A Rafah si calcola che 900.000 persone siano ad un livello emergenziale di insicurezza alimentare. Prevalentemente si dorme in tende o nei pochi edifici pubblici rimasti in piedi dai continui bombardamenti.
Qui magari hai una doccia ogni mille persone un bagno pubblico ogni 400. Devi fare ore di fila per poter soddisfare questi bisogni basici, se riesci a cucinare lo fai col fuoco sennò mangi le cose come ti vengono distribuite, magari in scatola. Collassato anche il sistema sanitario. I pochi ospedali rimasti sono sovraffollati fino all’inverosimile, si opera per terra, senza anestesia. Scarse le ambulanze ed ogni sistema di pronto intervento e cura. A tutto ciò va aggiunto il trauma che ognuno si porta addosso, chi ha perso i figli o i genitori, la casa o gli amici, con bombe e missili che fischiano sopra la tua testa da quattro mesi. Difficile tutto da raccontare perché il vissuto è molto distante dalla narrazione”. Gaza cambia la vita anche degli operatori umanitari. “E’ dal 7 ottobre che la mia vita e quella dei miei colleghi è cambiata significativamente. Il mio pensiero, anche adesso che non sono a Gaza, è sempre con loro ed ho un grande dolore e frustrazione mai provata precedentemente. Il pensiero corre a come staranno i tuoi colleghi, le loro famiglie. Pensi alla popolazione di Gaza e se mai riusciranno a superare questi traumi terribili. Soffro per la nostra scarsa possibilità di poter influenzare le dinamiche della diplomazia, riuscire minimamente a poter determinare cambiamenti sensibili, anche da parte del governo italiano. C’è sempre un dolore di fondo che non ti abbandona mai”.
“Se sei un bambino dormi, la fame aiuta ed aspetti che qualcuno ti porti qualcosa”
Come si avverte la presenza di Hamas parlando con le persone?
“Difficile rispondere a questa domanda. Lì intrappolati ci sono 29 nostri colleghi con le loro famiglie, tutti palestinesi, che vivono sotto le bombe: sono sfollati e nonostante ciò continuano a fare il loro lavoro; queste cose non sono tra quelle che prioritariamente chiediamo visto il taglio umanitario del nostro lavoro, l’unica cosa che posso dirti è che spesso la polizia scorta dentro la Striscia i camion degli aiuti umanitari”. Come è possibile che la difesa della vita del popolo palestinese venga spesso etichettata, in modo subdolo e non palese, come atteggiamento antisemita? “L’accusa di antisemitismo è una tecnica dialettica volta a delegittimare gli interlocutori, chiamata fallacia ad personam, dove si tende, piuttosto che smontare gli argomenti, a delegittimare chi ti critica. Questo è anche un tentativo per spostare l’attenzione al nocciolo del problema, i 56 anni di occupazione ed i 17 di blocco a Gaza. Se non si sciolgono questi due nodi, tutti politici, senza un vero dialogo di pace e di riconoscimento dello Stato si riproporranno sempre queste drammatiche emergenze”.