Idrissa, lo chiameremo così, che nella sua terra il Senegal, significa immortale. Sbarcato in Calabria arrivò in Toscana molti anni fa. Era ancora un ragazzino, e viveva in quella parte di Firenze dove la città perde il fascino della storia e dell’arte ed assume quello della solitudine e della marginalità. Con lui tanti altri Idrissa, con storie difficili e crude da raccontare. Tutti dannatamente sotto lo stesso tetto, si fa per dire, dove non è stato difficile passare dalla dipendenza dalle droghe, allo spaccio. Drammaticamente inevitabili i capitoli successivi. Arrestato, è arrivato nell’inferno di Sollicciano, forse nel carcere più difficile e precario della nostra Toscana. Reclusione senza rapporti con l’esterno, senza famiglia, senza aiuti. Idrissa non ce l’ha fatta, e poco tempo fa, a soli 27 anni, ha cercato di mettere fine al tunnel. Non è poi così difficile trovare un laccio, un lenzuolo, attaccarlo da qualche parte e lasciarsi andare. Nonostante gli aiuti ed il ricovero a Careggi disperato e solo, se ne è andato, per sempre. Un caso, uno dei troppi casi nelle nostre carceri. Si muore a Sollicciano e nelle sovraffollate galere italiane, si allunga con impressionante cadenza la interminabile conta dei carcerati che si suicidano. Una strage che avviene nel silenzio colpevole dei più. Il sovraffollamento, l’inoperosità e una inadeguata detenzione nei riguardi di tossici, affetti da disagio e salute mentale, sono spesso la causa dei suicidi. Troppi e insopportabili per un Paese che si definisce democratico e moderno. Troppi anche a Firenze e nella civilissima Toscana. La terra che per prima ha abrogato pena di morte e tortura ospita oggi carceri disumane. Celle di 10/12 metri quadri per 4/5 persone: lingue, religioni, reati, età, puzze e bestemmie tutti insieme appassionatamente per 20/22 ore al giorno. Senza fare niente e con una televisione appiccicata sul viso accesa. Impossibile leggere, studiare, lavorare, e chi non ha un euro è vittima degli altri, in tutti i sensi. In carcere si sa, ci stanno solo gli invisibili e molti in attesa di giudizio. Come dice Adriano Sofri le nostre galere sono popolate solamente dai poveri, dagli ignoranti e dai malati. Per loro la prigione resta solo un luogo di pena e di castigo, come ad essere di vendetta. E se l’art.27 della nostra bella Costituzione recita che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione ” scopriamo facilmente che le nostre carceri sono l’opposto. Ed un morto ogni tre giorni è una media odiosa, inaccettabile. E così, fra disperazione e gravi carenze igienico-sanitarie, inadeguatezze strutturali, personale stremato e spazi straripanti di corpi e menti compresse, si allungano le terribili catene. Quelle del dolore e dei suicidi.
Le storie di Idrissa finiscono solo nei numeri di noiose statistiche distrattamente ricordate in qualche conferenza poco frequentata e talvolta in qualche articolo di giornale… anche on line.
I problemi sono altri, direte voi.
Confermo. Continuando così, infatti, in barba al principio rieducativo della Costituzione, dimenticheremo i tanti Idrissa ma avremmo anche un paese tormentato dai tanti chi escono dal carcere peggiori di come sono entrati.
Disumanità e delinquenza… legalmente accettate?