Il lavoro di Francesco Kento Carlo nel carcere minorile di Reggio Calabria
Reggio Calabria, citando Pascoli, è una città “dove le onde greche vengono a cercare le latine”. Sospesa tra una storia leggendaria, un presente difficile e un futuro tutto da costruire. Gente forte, forgiata nel vento di mare e nella durezza delle montagne calabresi. Francesco “Kento” Carlo parte da qui, con il suo rap ispirato alle “posse” degli anni Novanta, dove l’impegno politico si mescola alla protesta sociale.
Dopo dieci dischi e migliaia di concerti decide che questo non è più sufficiente e accetta l’invito di un’associazione per un progetto didattico rivolto a giovani detenuti in un carcere minorile.
“I miei laboratori sono focalizzati sulla scrittura e sulle competizioni di poesia performativa. Forse molti la conoscono come la Poetry slam, un po’ come le battaglie del rap che spesso abbiamo visto nei film americani. La musica, in questo caso il rap, è semplicemente un mezzo non il fine. Il mio obiettivo è stimolare la creatività di questi ragazzi, farli confrontare con se stessi e portarli a scrivere su carta la propria storia”.
È difficile immaginare cosa realmente sia un carcere minorile e cosa si provi entrando.
“Sinceramente è più difficile uscire che entrare. Quando entri il primo impatto può essere strano ma poi finisci per sentirti in un posto qualsiasi. Il problema è quando esci: senti il rumore dei cancelli che si chiudono ed è veramente un colpo al cuore. Immediatamente pensi ai ragazzi che hai lasciato pochi istanti prima. Una parte del carcere minorile è esattamente come ce la immaginiamo: sbarre, serrature, lo spioncino pure al cesso, ci sono quei pavimenti terribili fatti di quella graniglia brutta e soprattutto le pareti di cemento, spesso ridipinte decine di volte tanto che il cemento sembra felpato, ma ti assicuro che felpato non è. Questa parte, nonostante tutto, è quella che fa meno paura”.
Ora chiudete gli occhi e aprite bene narici e orecchie.
“Provate ad immaginarvi mentre camminate lungo i corridoi del carcere. La sentite questa puzza? Un odore acre, complesso, stratificato composto di tanti ingredienti: disinfettante industriale, puzza di sudore (che potrebbe ricordare anche quello delle palestre dei campionati giovanili, però senza quel brivido gioioso di speranza ed entusiasmo), sentiamo odore di shampoo (ma non balsamo), di deodorante (ma non acqua di colonia) ma soprattutto se state attenti sentite la puzza della paura. Questa però non te la so descrivere se non che sembra un odore primordiale”.
E poi ci sono i rumori: la chiave d’ottone che gira nella serratura, il battere del metallo, in carcere ce n’è ovunque, scosso, bussato, strisciato e tanto silenzio.
“Ad alcuni ragazzi hanno dovuto insegnare a lavarsi, altri invece hanno problemi psichiatrici. Di questo si dovrebbe occupare un carcere minorile?”
“La cosa più difficile da raccontare sono i silenzi del carcere. Questi spazi io li definisco delle enormi parentesi graffe dove dentro ci sono la frustrazione, la rabbia, i dubbi e ancora una volta la paura. In questi anni, attraverso la musica rap e la poesia, ho cercato di farmi spazio dentro queste parentesi”.
Ogni nuova lezione è una grande avventura ma inizia sempre con una stessa scena: “appena arrivo nella sala, tra i ragazzi ce n’è sempre almeno uno che si mette in disparte e mi guarda di traverso, come per dirmi: non mi importa nulla (un cazzo) di te. Io penso che sia una cosa strana perché le mie lezioni sono volontarie e quindi potrebbe benissimo tornare in cella. In ogni modo lui se ne sta in disparte, zitto e serio fino alla pausa sigaretta, perché in carcere a qualunque età si fuma sempre. Durante la pausa mi si avvicina come uno che mi vuole accoltellare, ma per fortuna è una coltellata di parole. In genere l’esordio è affidato ad una frase sola, che poi è un po’ uguale per tutti: mi aiuti a scrivere una canzone per la mia fidanzata che mi aspetta fuori? E poi con sguardo complice aggiunge: però non lo deve sapere nessuno… Il senso della reticenza è sempre molto presente in questi ragazzi, ma finalmente ho rotto
il ghiaccio e gli dico… ok io ti aiuto, ma tu aiuta me… dimmi qualcosa di lei. In genere a questa mia domanda esiste solo una risposta: è bellissima. Il nostro dialogo si fa più serrato: dimmi dove vi siete conosciuti, dove vi siete dati il primo bacio, raccontami qualcosa di lei. A questo punto, se sono stato bravo ad accendere la miccia, basta aiutarlo un po’ con la metrica e le rime e la creatività viene fuori come un fiume in piena”.
“Il più grande regalo che mi hanno fatto questi ragazzi è quello di farmi affrontare il processo creativo esattamente come loro, senza mediazioni. Ficcando le mani dentro il gomitolo della loro anima, dove spesso trovo rabbia, frustrazione, debolezza, indifferenza. Io provo a tirare un filo e vedere dove mi porta fuori, sempre più dentro o addirittura si scioglie. Ogni volta che inizio un laboratorio in carcere chiedo ai ragazzi come si sentono, chiaramente stando in carcere non possono rispondermi “mi sento bene” e mi rispondono con due parole: boh, normale. Questa risposta vuole dire che il gomitolo è ancora molto stretto”. Il carcere minorile – secondo Kento – “è una misura anacronistica e tra 100 anni non potremo credere di aver vissuto in una società in grado di rinchiudere in cella dei ragazzi di 14 anni”. Sono 17 gli istituti penali minorili in Italia. Si tratta di strutture diverse per caratteristiche e dimensioni, dove le attitudini personali degli operatori e la loro capacità d’iniziativa diventa di fondamentale importanza. “Ma sono pur sempre carceri con celle, sbarre e spioncini. Il sistema presuppone che il cittadino che ha sbagliato ed è uscito dalla retta via, lì debba essere riportato. Ma se, ad esempio, mia mamma spaccia, mio papà è in carcere, mio zio fa le rapine, io a 14/15 anni che cosa posso fare? I reati. Perché per me quella è la vita normale. Ma ti dirò di più, ci sono stati dei casi in cui ad alcuni ragazzi hanno dovuto insegnare a lavarsi, ragazzi che non sapevano come ci si faceva una doccia. E queste cose le dovrebbe fare un cercare minorile? Non credo proprio. Ci sono dei ragazzi con dei problemi psichiatrici, spetta al carcere minorile occuparsene? Non credo proprio. Eppure il carcere finisce per assumere ruoli che non sarebbero di sua competenza, ma della società che sta fuori e per me è importante sottolineare a chi non conosce, non se ne occupa, quanto il carcere faccia parte delle nostre città, i detenuti della nostra comunità. Perché se noi diciamo che un ragazzo di 15 anni è finito, la sua vita è segnata, tanto vale che gli spariamo un colpo in testa e ci togliamo un problema. Se noi diciamo che non solo non è finito, ma nemmeno ha cominciato a vivere, allora è una responsabilità che ci riguarda un po’ tutti”.