Una Nazionale di calcio a 5 per combattere lo stigma della malattia mentale. La vera storia di chi ha portato un gruppo di persone con problemi di salute mentale a diventare campioni del Mondo nel 2018
Se scriviamo Crazy for Football tutti penseranno al film del regista Volfango De Biasi o al libro che lo stesso regista ha scritto nel 2017 insieme allo scrittore e sceneggiatore Francesco Trento, ma dietro c’è anche una storia vera che è cominciata nel 2004, quando Santo Rullo, uno psichiatra italiano di strada, inizia a utilizzare il calcio come strumento riabilitativo nei servizi territoriali di salute mentale e insieme ad alcuni colleghi organizza un vero e proprio campionato di calcio dedicato alle persone con problemi di salute mentale.
Questa storia diventa il primo rudimentale documentario di De Biasi Matti per il calcio, il quale fa il giro del mondo e arriva in Giappone, dove ancora ci sono i manicomi, ma pure persone molto sensibili al tema che, nel 2013, invitano Santo Rullo alla prima conferenza di sport per la salute mentale, dove lo psichiatra racconta la sua esperienza.
Santo Rullo torna dal Giappone con tante soddisfazioni e con l’impegno di partecipare con una Nazionale al primo Campionato del Mondo per persone con problemi di salute mentale che proprio il Giappone avrebbe organizzato nel 2016.
Il medico psichiatra si mette così alla ricerca di partner, sponsor e giocatori. Cerca la Figc, il Coni, gli enti di promozione sportiva e di coinvolgere tutti i dipartimenti di salute mentale italiani; trovandosi, spesso, osteggiato. Ma l’idea di dare vita a una Nazionale italiana e di partecipare a un Mondiale è troppo forte e così decide di autofinanziarsi e iniziare questa avventura. Grazie a una pura casualità riesce a ottenere, dall’allora presidente federale Carlo Tavecchio, le divise ufficiali della Nazionale maggiore e comincia a dare forma alla squadra. La prima mossa è quella di cercare il Commissario tecnico e su suggerimento di Francesco Trento entra in campo il mister Enrico Zanchini, un ex giocatore di calcio a 5, adesso allenatore con una forte propensione al sociale e al sostegno delle persone svantaggiate. Insieme a Zanchini arriva pure il preparatore atletico, l’ex campione del mondo dei pesi massimi Vincenzo Cantatore, grande amico di Santo Rullo.
Nel 2016 la squadra allenata da Enrico Zanchini, parte per il Giappone e partecipa alla prima edizione del Campionato del Mondo, ottenendo il terzo posto. Oltre al podio, Santo Rullo e compagnia portano a casa l’impegno di organizzare il Mondiale successivo in Italia, nel 2018.
È a questo punto che entra in gioco Valerio Di Tommaso, presidente di ECOS e attualmente responsabile organizzativo della Nazionale Crazy for Football: “Lavoro da sempre nella promozione e internazionalizzazione di progetti sociali legati allo sport e alla cultura e avevo chiesto a tutti i miei amici e collaboratori di segnalarmi iniziative che avessero la potenzialità di crescere e di diventare buone pratiche scalabili e replicabili. Fu così che la mia compagna mi regalò il libro Crazy for Football. Ne rimasi affascinato e contattai Santo Rullo. Da quel momento abbiamo iniziato un percorso comune per l’organizzazione del Mondiale 2018 a Roma. Non avevamo fondi e nemmeno accordi con le istituzioni. Sapevamo solo che il calcio d’inizio doveva essere il 13 maggio, ovvero nel giorno del quarantennale della legge Basaglia, la prima legge al mondo che ha chiuso i manicomi in Italia. Io mi sono preso l’incarico di organizzare questo evento e di tenere le fila del progetto, gestendo pure i rapporti con la Figc, l’Uefa Foundation for Children, il Coni, il Credito Sportivo, oltre che con le altre nazionali che avrebbero partecipato alla rassegna iridata”.
“Non è stato per niente facile – continua Di Tommaso – e abbiamo lavorato sempre sul filo di lana. Avevamo preso l’impegno con tutte le squadre di provvedere noi al vitto e all’alloggio. Loro dovevano pensare solo al volo aereo. Certo, quando abbiamo preso l’impegno non ci aspettavamo l’adesione di dieci Paesi visto che nell’edizione precedente i partecipanti erano stati solo tre. Quando, poi, abbiamo avuto la conferma che sarebbero arrivati a Roma centocinquanta pazienti psichiatrici e che noi avremmo dovuto provvedere a tutto, qualche mancamento mi è venuto. Ho cercato invano di convincere Santo, almeno, a spostarci in periferia per la location, dove sarebbe stato tutto più semplice. Ma lui voleva che si facesse al centro di Roma, anzi proprio al PalaTiziano, la più importante e storica struttura sportiva della città. Alla fine, nonostante qualche sponsor si sia tirato indietro, forse perché non voleva accostare il proprio nome alla malattia mentale, e ancora dobbiamo saldare qualche conto, ce l’abbiamo fatta. Abbiamo ospitato tutti e organizzato il Mondiale, ribattezzato Dream World Cup, e la nostra Nazionale si è laureata Campione del Mondo”.
Si può fare, verrebbe da dire, citando un film oltremodo famoso. Ma la cosa più importante è che questo percorso è diventato un modello alternativo per affrontare la salute mentale sul territorio e ci sono tante organizzazioni che sono diventate partner ufficiali del progetto: “con la Nazionale adesso facciamo raduni periodici e scouting di nuovi giocatori in tutta Italia grazie alla collaborazione delle associazioni locali e dei servizi territoriali di salute mentale in tutto il Paese. Ultimamente abbiano ideato le #CrazyChallenge, per accettare di essere sfidati da squadre aziendali, i ragazzi giocano, si scambiano gadget, si confrontano con il mondo circostante. Abbiamo giocato anche contro i detenuti di Rebibbia. Il concetto è semplice, lo sport aiuta le persone con problemi di salute mentale a reinserirsi, ad avere un ruolo, a essere riconosciuti al di là dello stigma e questo fa tantissimo”. ECOS in questi anni è diventata progressivamente un punto di riferimento per lo sport e la salute mentale e ha organizzato percorsi di formazione e think tank internazionali per portare in giro le buone pratiche di questo progetto e metterle in rete a regime: “Nell’Unione Europea abbiamo 480 milioni di abitanti, tra questi ci sono persone con disturbi psichici, alcuni il sistema li intercetta e li gestisce, altri no e la cura con i soli farmaci, alla fine, non nasconde i problemi di salute mentale», sottolinea Di Tommaso, che ha fatto di questa avventura un progetto professionale e di vita. Crazy for Football offre un percorso alternativo a tanti ragazzi che non hanno scelta. Un paziente psichiatrico nella maggior parte dei casi è obeso, fuma e non fa attività sportiva, rischiando di morire per gli effetti collaterali di questo stile di vita, poiché generalmente non si muore per problemi di salute mentale. Lo sport, il calcio in questo caso, ma non è detto che non possano nascere rappresentative di altre discipline, è uno strumento, il più popolare, che li porta fuori da quel contesto standardizzato delle cure psichiatriche. La Nazionale, il Mondiale, o se preferite, la Dream World Cup, li ha posti all’attenzione mediatica, ma soprattutto ha posto all’attenzione di tutti noi che esistono percorsi alternativi nella cura della salute mentale, che questa non deve essere nascosta ma deve essere portata alla luce, per combattere lo stigma che si porta appresso.
Santo Rullo e la leggenda del santo calciatore
Terapie psicologiche e farmaci ma anche attività fisica
Santo Rullo è uno psichiatra che attualmente lavora per tre comunità terapeutiche, una per adulti e due per adolescenti. “L’intervento clinico canonico, con persone affette da problemi di salute mentale – afferma Rullo – è fatto di colloqui e prescrizioni di farmaci. Una routine da malato che solo il pallone sembrava spezzare, vedendo che chi aveva la possibilità di giocare cambiava la postura: era come guardare persone devitalizzate che all’improvviso riprendevano vita. Una visione che ho cercato di mettere in pratica, inizialmente chiedendo al Circolo Tennis dei Parioli un campetto e poi promuovendo la partecipazione dei pazienti a un campionato regionale della Uisp, da cui è nato un primo documentario Matti per il calcio e, poi, tutto il resto”. In realtà Santo Rullo sottolinea come sia stata la scoperta dell’acqua calda: “la malattia mentale riduce del 20 per cento l’aspettativa di vita di chi ne soffre. I farmaci danno sedentarietà e il combinato disposto è un aumento ponderale che porta tutta una serie di problemi fisici. Ho sempre pensato che gli interventi sulla persona con problemi di salute mentale debbano essere integrati, da una parte i farmaci e dall’altra l’attività fisica e le terapie psicologiche, per reinserirlo nel contesto sociale e dargli una vita dignitosa”. Però non tutti gli psichiatri la pensano come Santo Rullo: “più che diffidenza c’era passività da parte di molti colleghi. Cioè l’idea di salvaguardare il paziente non facendolo vivere, evitando anche il minimo pericolo rispetto a rischi che li spingerebbero a una migliore qualità della vita. Impedire al paziente di essere disturbante piuttosto che essere disturbato è un intervento a metà, è come non voler vedere l’altra faccia della Luna. Alla fine ci siamo accollati tutte le responsabilità, sia sanitarie che economiche, e questo ha aperto le porte delle istituzioni. Abbiamo dovuto combattere pure contro le famiglie che, a volte, vogliono nascondere la malattia mentale del proprio congiunto, ma uno degli obiettivi era proprio quello di abbattere lo stigma, mostrandolo”, con la maglia azzurra indosso. Nel frattempo il Coronavirus ha rimandato il Mondiale in Perù previsto per il 2020, ma le buone pratiche non sono perse e la battaglia è pure per il loro riconoscimento: “in fondo applichiamo quello che è già previsto dal ministero della Salute sulla bontà dell’attività fisica. Secondo l’OMS, una persona su quattro nel corso della vita andrà incontro a un problema di salute mentale più o meno grave. Lo sport permette maggiore inclusione, monitoraggio del paziente e capacità di reinserimento. Uno dei nostri ragazzi, Antonio, dopo il Mondiale si è suicidato. Avergli evitato quell’esperienza l’avrebbe preservato? Il punto è proprio questo: vivere senza nascondersi, accettando noi i limiti delle patologie, affinché li accettino anche loro”. In Italia ci sono circa 100mila persone in età evolutiva chiuse dentro le proprie case e la pandemia ha fatto il resto: “se pensiamo che stare a letto e guardare Internet siano parametri sufficienti per considerarsi vivi, questa società deve rivedere i propri canoni di civiltà”.
EnricoZanchini, la vittoria e i valori non negoziabili
“Il calcio potrebbe essere un enorme strumento di educazione e inclusione”
Enrico Zanchini è come te lo aspetti. Diretto, genuino, una persona vera che ha alle spalle anni di calcio e di militanza, riuscendo a fare convivere entrambe le cose, insieme con la voglia di vincere che non deve mai mancare nell’agonismo. Oggi, tra le altre cose, gestisce il Circolo Il Faro, nato come circolo di Legambiente, con gli amici dell’adolescenza, con i quali fondò la squadra CCCP 1987 a Monteverde, Roma. Tradito da un ginocchio ha studiato per diventare allenatore e la panchina della Nazionale Crazy for Football è arrivata grazie all’amicizia con lo scrittore e sceneggiatore Francesco Trento che ha fatto il suo nome: “così dal 2016 sono il Ct di questa squadra e con me ora c’è Riccardo Budoni, perché negli anni lo staff della Nazionale è stato preso in blocco dai CCCP 1987. In passato avevo anche allenato una squadra di ragazzi con problemi di tossicodipendenza, ma alla fine le dinamiche dello spogliatoio, della gestione degli allenamenti e delle partite è comune a tutti. Io non mi sono mai sottratto e sono rimasto sempre me stesso, severo ma scherzoso, alla romana. Ovviamente Santo mi ha dato le dritte giuste per capire chi avevo di fronte, mentre Valerio mi ha aiutato nella logistica degli stage. Allenare persone con problemi di salute mentale significa che non sempre puoi averli tutti a disposizione”. Per Enrico la guida di questa squadra è la chiusura di un cerchio, di una vita dedicata a valori non negoziabili: “il calcio potrebbe essere un enorme strumento di educazione, inclusione, etica e rispetto delle regole, però spesso è tutto il contrario. Ai nostri ragazzi, al Circolo, cerchiamo di insegnare questo in controtendenza con quello che accade tutto intorno. Però io credo che esperienze come questa, come i CCCP 1987, o, ad esempio, gli Insuperabili, l’Atletico San Lorenzo, Liberi Nantes e tante altre, siano segnali che qualcosa sta cambiando e che lo sport come strumento sociale può avere il suo spazio e la sua vetrina”. La cosa più incredibile, per chi guarda da fuori, è che molti dei ragazzi selezionati per Crazy for Football sono giocatori veri, giocatori che potrebbero militare tranquillamente nella C o nella B del calcio a 5: “alcuni di loro sono proprio forti. Premetto, io ho amato poche nazionali, quella dell’82 su tutte, ma vincere vedendoli vestire la maglia azzurra, quella vera, è stata un’emozione incredibile. Soprattutto per loro che molti vorrebbero rinchiusi e nascosti, legati e sedati. Invece hanno vinto, con l’orgoglio di chi indossa la maglia dell’Italia e io con loro”. Un allenatore all’altezza di aspettative umane, prima che sportive, dal valore inestimabile.