Sensuability: ti ha detto niente la mamma?

Quarta edizione del concorso e della mostra, alla casa del Cinema di Roma. Nessunotocchimario: abbattere gli stereotipi su sessualità e disabilità con nuovi linguaggi e un modo diverso di fare cultura, e pubblicità

Armanda Salvucci è la presidente dell’associazione di promozione sociale Nessunotocchimario e ideatrice del progetto Sensuability, un concorso e una mostra arrivati alla quarta edizione che dal 14 febbraio al 14 marzo hanno ‘occupato’ la Casa del Cinema di Roma. Un progetto che ha come tema centrale quello di abbattere i pregiudizi su disabilità e sessualità, attraverso processi culturali. “L’idea è del 2016, il cortometraggio (https://www.youtube.com/watch?v=-vs3U5rtf1Y, ndr) del 2017 e il primo concorso con la mostra del 2018-2019. L’associazione Nessunotocchimario A.P.S., è nata il 16 dicembre del 2017 perché abbiamo pensato che servisse una struttura per sostenere il tutto. Il nome dell’associazione deriva dal film Non ci resta che piangere, dove Parisina ringrazia sempre Mario invece che Saverio, lo stesso ho fatto io durante il cortometraggio con due persone della troupe e così è nata l’idea”. Armanda ha tanti pregi, uno di questi è la leggerezza con la quale affronta certe tematiche e la severità con cui affonda quando è il momento di farlo.
Quella iniziata nel 2016 è una rivoluzione culturale e ribellione umana insieme per rovesciare pregiudizi, luoghi comuni e bias cognitivi che colpiscono le persone con disabilità e i loro diritti fondamentali: “facciamo subito chiarezza, la sessualità non è un diritto ma un bisogno vitale che non può essere represso in alcun modo e per poterlo soddisfare le persone con disabilità devono avere le stesse opportunità degli altri, a partire dalla socializzazione. Un esempio concreto. Se io vado in un locale e il bancone del bar è troppo alto oppure ci sono delle barriere architettoniche non posso entrare e se entro non avrò le stesse opportunità degli altri a socializzare e soddisfare i miei bisogni vitali. A questo, poi, segue e precede, a seconda dei casi, la narrativa del disabile come il bambino perenne, l’angelo senza sesso. In Italia questi sono temi tabù, non se ne parla, guai, o se ne parla male, relegando le persone con disabilità dentro vite incompiute sotto vari aspetti. Credo che molte più persone si sentano a disagio riguardo la sessualità, non solo a parlarne ma pure ad affrontarla. Per questo abbiamo ideato lo slogan: “La prima volta siamo tutti disabili””.

I modelli espressi da pubblicità, cinema, musica e le altre espressioni artistiche sono irraggiungibili per molti di noi. Modelli che ci fanno sentire inadeguati perché il sesso ci denuda completamente davanti all’altra persona, non solo dei vestiti ma anche di tutte le nostre inadeguatezze e fragilità: «vorrei si comprendesse come questo tipo di problemi non riguarda solo noi disabili ma tutta la società, che, però, alza muri di incomunicabilità sull’argomento e quando l’affronta fa danni incalcolabili. Ci sono due stereotipi dai quali pare impossibile uscire: la vittima e il supereroe. Dico spesso che siamo noi a dover far conoscere la disabilità nel modo giusto, dobbiamo riposizionarci come si fa nel marketing. Ecco perché serve una rivoluzione culturale ed ecco Sensuability con il concorso e la mostra. Ecco perché servono più leggerezza e ironia, perché se io mi chiudo e accuso il mondo che mi respinge, quel mondo si ritrarrà a sua volta”.
Una rivoluzione che passi attraverso varie forme d’arte e artistiche, dal fumetto alla pubblicità, per abbattere pregiudizi e vincere la paura: “quando le famiglie mi incontrano per strada, i figli fanno domande e i genitori li strattonano via per non rispondere, per non affrontare l’argomento, per ignoranza e paura insieme. L’obiettivo è la libertà, questa aiuta a vivere insieme, la mia libertà, la tua libertà. Odio la parola inclusione perché sottolinea il fatto che io non sia compresa nella comunità degli umani, quasi come se mi facessero un favore ad accogliermi, a includermi, come se mi facessero entrare nel recinto dei privilegi ai quali mi devo adattare. Preferisco di gran lunga la libertà interiore. Le persone con disabilità devono essere comprese, nel doppio senso della parola, principalmente nel senso che il mondo preveda anche la mia presenza, che io sia già compresa, che non debba chiedere per avere ciò che mi spetta, come tutti gli altri, ugualmente a tutti gli altri. Per fare questo passaggio serve un ragionamento intellettuale e razionale. Per questo l’associazione Nessunotocchimario organizza, dalla sua fondazione, seminari, convegni e va in giro per le scuole con l’obiettivo di sensibilizzare, perché serve un salto culturale”.

“Dico spesso che siamo noi a dover far conoscere la disabilità nel modo giusto. Serve una rivoluzione culturale ed ecco Sensuability con il concorso e la mostra.”

In questi quattro anni di passi avanti ne sono stati fatti. Perché è facile pensare al momento della mostra e della sua comunicazione, ma dopo cosa resta, cosa rimane in chi si crede ‘normale’? “Ho visto le persone non disabili rispecchiarsi in ciò che dico, le ho viste guardarsi intorno con uno sguardo diverso, più attento e meno pietistico. Ho visto che qualcosa si è mosso dentro di loro. Infine le ho viste interessarsi al tema, come mai prima. Questo è il cambiamento che vogliamo provocare non tanto per sentirsi parte di una comunità, ma per sentirsi degni di fare parte della comunità senza essere considerati cittadini di serie B”.

La pubblicità, in questo senso, è stata per decenni foriera di stereotipi, di tutti i tipi, a partire da quello di genere, basta riguardare il Carosello di una volta. Poi è arrivata la perfezione dei corpi e di certi stili di vita, inaccessibili ai più, causando frustrazione in tante persone, non solo quelle con disabilità: “per fortuna anche in questo settore sono in atto cambiamenti culturali, dove i corpi sono diversi e non tutti omologati. Alla fine se vedo un capo di biancheria intima su un corpo come il mio posso decidere se acquistarlo o meno. Se lo vedo solo addosso a modelle irraggiungibili, lo compro e mi accorgo che non lo posso indossare la frustrazione sale di brutto. In Italia, soprattutto, non siamo abituati a vedere corpi diversi, la bellezza e tutto ciò che esprime è omologata dentro specifici bias cognitivi”, sottolinea Armanda Salvucci. “Mi sono resa conto che oltre i miei problemi oggettivi ne ho meno di tante altre persone. Quando, per esempio, ho affrontato le operazioni per l’allungamento, sono stata avvicinata da ragazze alte un metro e sessanta che volevano farsi operare perché si sentivano ‘anormali’. Far sentire inadeguate le persone anche se non hanno nulla che non va è il risultato di quegli stereotipi e pregiudizi, che colpiscono tutti noi, ma proprio tutti”.

Il tema del sesso e della disabilità è quasi impossibile da scovare nei media, soprattutto in quelli mainstream. Il tabù è così forte che si preferisce girare la testa dall’altra parte: “questo è un Paese dove le cose si fanno ma non si dicono, non si vuole l’assistente sessuale, ma si lascia che siano i genitori ad assolvere i bisogni vitali dei propri figli e figlie. Questa è ipocrisia. L’importante è che quel desiderio, il desiderio di un disabile, non esca dalle mura di casa. Perché quel desiderio esca dalle mura, le persone con disabilità devono avere le stesse opportunità, le stesse possibilità di socializzare in maniera indipendente senza dover chiedere niente ad alcuno, ma per arrivare a questo bisogna abbattere le barriere fisiche e architettoniche, che sono soprattutto barriere culturali”.

Gli stereotipi poi colpiscono le donne disabili in più modi, come se essere discriminate per la disabilità già non bastasse: “le donne con disabilità sono discriminate due volte, in quanto donne e in quanto disabili. Siamo discriminate sul lavoro o in altri ambiti perché donne, ma non siamo considerate donne se si parla di sessualità, allora diventiamo asessuate. Siamo donne quando fa comodo. Per non parlare della maternità, qui vige il pregiudizio che non siamo in grado di occuparci di un’altra persona, o di prenderci cura di un cane, com’è successo a me. Insomma, c’è qualcuno che decide cosa posso fare e cosa non posso fare, chi devo amare e chi no, se posso fare sesso o devo rinunciarvi. La nostra associazione si chiama Nessunotocchimario proprio per questo: perché nessuno può permettersi di dire a Mario cosa può o non può fare e chi deve o non deve amare. La sessualità è ridotta, il più delle volte, al solo gesto della penetrazione (guai a nominarla), a una prestazione fisica che, in base al modello imperante per cui solo se sei giovane, bello e perfetto puoi farlo, fa sentire tutti inadeguati. Dovremmo invece considerare la persona nella sua interezza, non solo corporea, ma siamo al salto culturale di cui stiamo parlando, per il quale ci battiamo e organizziamo mostre come questa: l’erotismo, che può essere declinato in mille modi diversi”.
Il corpo, quello delle donne, innesca un altro meccanismo. Il diritto è il recinto delle nostre libertà, nuovi diritti bussano per farne parte e allargare il primo. Molte associazioni si battono per diritti diversi che a volte collidono: “noi vogliamo essere riconosciuti anche come corpi sessuali, ma questo stride con un certo femminismo. C’è la causa femminista, c’è quella della comunità Lgbtqia+ e c’è la nostra, dovremmo trovare un’intersezione. Partiamo da un ceppo comune di riconoscimento dei diritti che si diramano in tante richieste specifiche e non è detto che perché vanno in direzioni diverse una sia sbagliata rispetto alle altre. La difficoltà è poi quella di portare fuori il tema della sessualità e disabilità, farlo conoscere al grande pubblico.

“La nostra associazione si chiama Nessunotocchimario perché nessuno può permettersi di dire a Mario cosa può o non può fare e chi deve o non deve amare.”

Alla Casa del Cinema di Roma abbiamo trovato grande collaborazione e attenzione per le nostre battaglie. Ma quando chiediamo visibilità sui media diventa un po’ più complicato, perché parliamo di sessualità in modo diretto, non pietistico e sofferente, e questo non va bene: se parliamo di amore ci può stare ma guai a parlare di sesso”.
Chi ha varcato la soglia, chi è andato a vedere la mostra è sicuramente una persona che si mette in discussione, che ha messo in discussione i propri pregiudizi e bias cognitivi. Che non crede che la vita delle persone con disabilità sia solo dolore e sofferenza, o almeno è pronto a ricredersi: “anche quando c’è dolore e fatica ci deve essere spazio per la leggerezza. Ci sono tante cose serie che se ne può soltanto ridere, non ridicolizzare, ma affrontare con l’ironia di chi si rimette in gioco e questo vale per noi che ci mostriamo attraverso il concorso e per chi è venuto a vedere la mostra. Solo se hai la mente aperta riesci a guardarla per ciò che è, riesci a fare le domande giuste. La cosa più bella? In questi anni sono venute tantissime mamme insieme con i propri figli. Questo ci permette di lanciare i giusti messaggi alle nuove generazioni. Nuovi messaggi per un nuovo modo di fare cultura”.