Intervista a Enrico Fink, Direttore OMA
Tu sei il direttore dell’Orchestra. Quanto è stato difficile amalgamare le culture e le sensibilità dei musicisti?
In tutti questi anni l’OMA ha vissuto e si è sviluppata non solo come progetto musicale ma anche come momento di aggregazione, spazio collettivo aperto e inclusivo: le persone che sono state con noi hanno portato nel nostro piccolo mondo il loro contributo di storie, cultura, musica. E nella grande diversità delle singole esperienze – da giovani “aretini da sempre” a persone con storie recentissime di migrazione, studenti, pensionati, musicisti di professione e dilettanti di lungo corso – tutti hanno gradualmente accolto lo spirito del gruppo, e sono stati i primi a volersi raccontare, voler conoscere, volere insomma creare quell’amalgama speciale che poi è la nostra caratteristica principale. Quindi portare insieme sensibilità diverse è stato un percorso collettivo, certamente non facile né immediato ma portato avanti da tutti insieme, con molto entusiasmo.
Come scegli il repertorio dell’OMA e quanto i tuoi musicisti influenzano il tuo lavoro?
A parte i primissimi tempi, in cui ci concentravamo su canzoni “migranti”, che avevano versioni tradizionali in lingue e contesti diversi, il repertorio è nato molto su proposta dei musicisti stessi. Naturalmente la nostra attività ha piano piano portato tanto materiale su cui lavorare, che è anche spesso entrato nel repertorio stabile dell’orchestra. In generale, comunque, quello che suoniamo è figlio delle proposte e delle attitudini, dei gusti e delle capacità dei membri dell’orchestra: la nostra non è un’orchestra standard ma una formazione altamente originale, la musica che facciamo riflette la nostra storia e la nostra composizione: questo si sente in ogni nostra esibizione.
Avete dimostrato grande elasticità e adattabilità in questi anni, suonando con ospiti molto diversi tra di loro. Qual è stato il collante per tenere insieme il progetto?
Abbiamo avuto a che fare con artisti assai diversi fra loro, e diverse sono state le modalità di interazione e di costruzione dello spettacolo. Alcuni sono stati musicisti che lavorano in ambiti non poi lontani dal nostro – penso a Frank London, Moni Ovadia, Ginevra di Marco e Francesco Magnelli; e con loro abbiamo scambiato idee, imparato tanto anche su come affrontare il nostro percorso musicale al di là del momento di collaborazione. Con altri abbiamo incontrato sensibilità diverse ma affascinanti – penso a esempio a tutti i musicisti dell’ambito del nuovo cantautorato italiano, da Dario Brunori a Margherita Vicario passando per Paolo Benvegnù e tanti altri; e poi abbiamo abbracciato amici di lunga data come il nostro caro e compianto Erriquez, ma anche Raiz e altri. Con ciascuno abbiamo inventato un modo di suonare insieme: a volte reinterpretando i loro brani in forma molto libera e legata ai nostri strumenti, alle nostre frequentazioni in ambito di world music, e trovando sempre grande disponibilità e generosità da parte dei vari ospiti a ripensare brani in forma diversa; altre volte inserendo brani del nostro repertorio nelle loro canzoni, creando “mash-up” imprevedibili e divertenti; a volte ancora dedicandoci insieme a esplorare musica per noi nuova, tutta da imparare e utile per farci crescere. (A.L.)
“Mi abbandono al caos e all’imprevisto
e scopro la bellezza della fragilità”
Come hai incrociato la tua strada artistica con l’OMA?
Galeotto fu l’incontro con Luca “Roccia” Baldini ad Acquaviva di Montepulciano in occasione di un concerto in cui lui suonava col mitologico Paolo Benvegnù. Feci il gravissimo errore di dargli la mia mail e lui non perse l’occasione per scrivermi e incastrarmi in questa banda di matti. Facemmo subito due concertini in Toscana e fu amore a prima vista.
Da sempre sei un artista impegnato su temi e argomenti sociali e di impegno civile. Secondo te gli artisti (siano essi musicisti, attori, pittori, scrittori) devono impegnarsi chiaramente in ambito sociale o secondo te l’arte non deve inseguire l’attualità e i temi sociali e volare più alto?
Come in ogni aspetto della nostra esistenza, non esiste una regola fissa. Io faccio quel che sento e che mi ispira. Avere cura e dedicare tempo alle proprie composizioni, alla propria scrittura, alle proprie performance, insomma fare al meglio il proprio lavoro è già un atto politico per quanto mi riguarda. E poi chi educa alla bellezza e all’arte, in qualsiasi forma lo faccia, lancia un semino che magari non ha un impatto immediato ma germoglia col tempo.
Quando ti esibisci con un ensemble come quello dell’OMA percepisci una differenza rispetto ad una tua performance, diciamo, tradizionale?
Sì, percepisco un gran casino inizialmente e la cosa mi piace molto, perché tendenzialmente sono un ragioniere che con la sua band prova e riprova fino allo sfinimento e che vuole fare tutto in modo ordinato e al millimetro. Con loro devo per forza abbandonarmi al caos e all’imprevisto e scoprire la bellezza della fragilità. Non abbiamo molto tempo per le prove, per cui i musicisti coinvolti (che spesso cambiano per la natura stessa del progetto) sono tutti molto concentrati e in qualche modo in tensione affinché l’esecuzione non abbia sbavature. Ecco, questa tensione, anche questa paura di sbagliare se vuoi, secondo me crea la magia. Esecuzioni in equilibrio su un filo sottile, che il più delle volte riescono ad emozionare non solo il pubblico ma anche noi che siamo sul palco. (A.L.)
“Gli artisti hanno il dovere di occuparsi del mondo che li circonda”
La testimonianza di Ottavia Piccolo
Ho incrociato i musicisti dell’Oma grazie a Stefano Massini, che ci ha voluti insieme per lo spettacolo “Occident Express”. Li avevo già sentiti suonare e mi ero entusiasmata. Ma lavorare con loro è stata un’esperienza stupenda. Ci siamo intesi alla prima nota. Con me sul palcoscenico c’erano otto Maestri, e se “Occident Express” ha avuto applausi e riconoscimenti è perché le musiche del Maestro Fink suonate dai miei compagni di scena erano così necessarie alle parole di Massini che hanno costruito un insieme perfetto.
Penso che gli artisti abbiano il dovere di occuparsi del mondo che li circonda. Del resto il teatro, la musica hanno sempre fatto questo. Non credo all’artista che vive nella sua torre d’avorio.
Lavorare con i musicisti in scena è per me un arricchimento. Non sempre lo spettacolo lo consente ma quando è possibile, sono felice di dividere la scena con la musica.
Tutto è diventato più difficile con il Covid. È stato un periodo duro per tutti. Il mondo dello spettacolo ha sofferto molto anche se nella percezione di gran parte della gente, gli artisti sono considerati dei privilegiati. Naturalmente non è così. Certo ci sono alcuni che possono essere considerati tali, ma sono una minima parte. La maggioranza, e penso anche alle maestranze, è fatta di persone che con passione fa un lavoro poco retribuito e soprattutto precario. Forse dovremmo impegnarci tutti perché la musica, il teatro, insomma la cultura abbiano il ruolo e l’importanza che gli spettano nel nostro paese.